È il braccio armato del presidente russo. Una struttura complessa, nata nel 1995 sulle ceneri del famigerato Kgb, che difende il potere di Mosca e gli Stati satelliti. Pronta a colpire dissidenti e «voci» scomode. Com’è accaduto con Alexei Navalny.
Si chiama Kgb, ma non è il servizio segreto russo. Però ne ha mutuato metodi e finalità. Come la prepotenza e la violenza di Stato. La stessa che lo ha portato a organizzare il dirottamento di un aereo civile sopra i cieli d’Europa il 22 maggio scorso pur di arrestare un dissidente di appena vent’anni, il reporter Roman Protasevich. Già, perché il Kgb è il servizio segreto bielorusso, che non ha voluto cambiare neppure il proprio nome dopo la dissoluzione dell’Unione sovietica, in una sorta di mancata «elaborazione del lutto».
Il metodo è il medesimo di sempre: la forza bruta. O, se vogliamo, la giustificazione di ogni mezzo per conseguire il fine. Come dimostrano non poche decisioni prese al Palazzo della Lubjanka dall’Fsb, sede moscovita del vero erede del Kgb sovietico: dalle stragi di Beslan e del Teatro dell’Opera di Mosca negli anni Duemila fino al silenzio-assenso sulla gestione bielorussa del dirottamento aereo dei nostri giorni.
Dal 1995, in ogni caso, il Servizio di sicurezza federale di Mosca è cresciuto d’importanza, occupandosi non solo di analisi, pianificazione strategica e formazione dei quadri dirigenti del Cremlino; ma ritagliandosi anche un ruolo primario nel controspionaggio e nella lotta al terrorismo islamico, storica spina nel fianco della Federazione russa. In pratica, l’Fsb è oggi l’ufficio plenipotenziario della sicurezza e difesa dello Stato e dei suoi satelliti, Bielorussia in primis. Un compito che assolve con impietosa determinazione. Specie nei confronti dei dissidenti e oppositori.
Prova ne sia l’arresto avvenuto lo scorso 30 aprile di Aslambek Ezhaev, il fondatore di Umma, la più grande casa editrice musulmana in Russia, accusato dalle autorità inquirenti di aver inviato fondi all’Isis per 34 milioni di rubli (circa 375.000 euro) quali proventi delle illecite attività «culturali» dell’editore. Le prove, tuttavia, sono ancora poco circostanziate e basate più che altro sui contenuti dei testi stampati dall’editore, nonostante fossero stati messi all’indice dalla censura di Stato.
Ma l’Fsb ha anche la sinistra fama di silenziare giornalisti «scomodi», dissidenti e attivisti. «Il caso dell’avvelenamento col Novichok dell’ex spia Sergej Skripal e di sua figlia Yulia, nel 2018 a Salisbury, Inghilterra, è stato solo l’ultimo maldestro incidente di uccisione mirata. L’avvelenamento al polonio di Aleksandr Litvinenko, a Londra; le esecuzioni dei capi ceceni un po’ ovunque, da Doha a Berlino a Istanbul; le fucilazioni di giornalisti, avvocati dei diritti umani e oppositori come Anna Politkovskaja, Natalia Estemirova e Boris Nemtsov. Tutte queste persone avevano a un certo punto suscitato in coloro che le guardavano l’inevitabile interrogativo su come mai fossero ancora vive» scrive Anna Zafesova nel saggio appena uscito Navalny contro Putin (Paesi Edizioni), che riannoda i fili dell’ennesimo tentativo dell’Fsb di mettere la mordacchia agli oppositori del regime.
Come noto, il principale oppositore russo allo strapotere di Vladimir Putin, Alexei Navalny, ha subìto un avvelenamento in aereo il 20 agosto scorso, e solo la prontezza dei soccorsi e un dirottamento in Germania (stavolta a fin di bene) hanno potuto salvargli la vita. Una vicenda che non solo conferma le sinistre attività odierne dell’Fsb, ma chiarisce la diminuita capacità dell’intelligence di Mosca nel gestire la sicurezza dei propri cittadini.
Quando Putin – con la macabra battuta «se fossimo stati noi ad avvelenare Navalny, ci saremmo riusciti» – ha provato a sviare le accuse contro il Cremlino su questo tentato assassinio, non è riuscito a cancellare il fallimento clamoroso delle sue spie: non solo l’Fsb non è riuscito a eliminare con discrezione il principale nemico del presidente, ma Navalny stesso ha smascherato uno dei suoi funzionari il quale, credendo di rispondere al suo diretto superiore, ha confessato in una telefonata videoregistrata di avergli messo personalmente il veleno nelle mutande.
Un sistema che forse andava bene all’epoca del regime bolscevico, quando Lenin inaugurò il programma «veleni» proponendo se stesso come prima vittima (dopo aver subìto un ictus debilitante nel 1922). Lenin chiese al suo successore, Iosif Stalin, il cianuro per suicidarsi. Stalin rifiutò, ma già nel 1926 i servizi segreti – che avevano approntato il primo laboratorio veleni nel 1921 – elevarono quel metodo a sistema. Cent’anni dopo, Mosca pensa ancora di poter combattere il nemico con gli stessi mezzi.
Che l’Fsb non sia più quello di una volta lo si evince anche dalla mancata evoluzione della sua struttura. Organicamente inquadrato nel ministero dell’Interno, negli anni le competenze del servizio sono aumentate a dismisura, sino a far rientrare la lotta contro il crimine organizzato, il traffico di stupefacenti e la corruzione tra i suoi compiti.
Ciò ha provocato una progressiva dispersione di competenze e un aumento del personale probabilmente eccessivo: oggi l’Fsb vanta un organico di circa 75.000 dipendenti, dispone di un controllo in teoria tentacolare delle informazioni e persino di un sistema penitenziario indipendente (su cui piovono accuse di torture sistematiche). Ma non rientra per esempio tra le sue competenze la cybersecurity, appaltata invece al Gru, il Servizio segreto militare. Un fatto che stride con la necessità di stare al passo coi tempi per questa «polizia segreta». E che ha portato negli ultimi tempi a operazioni disastrose, come appunto quella contro Navalny.
Quando l’Fsb ha provato a rinnovarsi non è andata bene. La prova vivente è Vadim Mitrofanov, specialista informatico russo che nel 2016 era direttore tecnico presso una società di servizi per le domande di visto ai consolati. Come ha confessato lui stesso a Bellingcat – sito di giornalismo investigativo britannico – Mitrofanov era stato reclutato in qualità di collaboratore sotto copertura per l’Fsb. Avrebbe dovuto tentare di violare il flusso d’informazioni riservate dei richiedenti il visto del Regno Unito, nonché compromettere l’effettivo sistema di rilascio dei visti presso il consolato britannico.
Il suo superiore dell’Fsb lo aveva costretto anche a predisporre dei visti per «un paio di ragazzi che hanno bisogno di visitare il Regno Unito. È importante che i loro passaporti siano accettati e approvati direttamente dal consolato, senza alcuna revisione e controllo dei precedenti e senza lasciare traccia». Risultato? Mitrofanov ha beffato l’Fsb e ha defezionato negli Stati Uniti dopo meno di un anno, rivelando agli americani i dettagli dell’intera storia.
Insomma, sia pur ammantato da un’aura d’infallibilità, grande competenza e spietatezza l’Fsb oggi può vantare giusto l’ultima di queste caratteristiche. Ciò nonostante resta lo strumento preferito di Putin, cui è direttamente subordinato e che se ne serve perché convinto della sua necessità ed efficacia (anche solo evocarne l’impiego fa tremare i polsi a molti dei suoi avversari politici e nemici interni).
Inoltre, l’influenza e la penetrazione dell’Fsb nella sfera politico-economica della Russia è ormai andata al di là i poteri costituzionali concessi ai servizi speciali. Essendo diretta emanazione del presidente, i suoi vertici sono stati nominati da Putin tra la cerchia ristretta dei suoi amici di lunga data (i soli dei quali si fidi): come Alexander Bortnikov, attuale direttore del Servizio, amico di Putin sin da quando entrambi servivano sotto il Kgb a San Pietroburgo.
I membri del «cerchio magico» del presidente russo non soltanto comandano tutti e cinque i dipartimenti dell’Fsb, ma attraverso di esso hanno il pieno controllo della quasi esclusività delle istituzioni statali, degli affari delle grandi aziende di Stato, e finanche dell’ufficio del procuratore generale. Il che dà adito a questi funzionari di fare in pratica ciò che vogliono, quando vogliono: compreso usare le loro posizioni per guadagnare entrate illecite. Putin la chiama sicurezza di Stato, Navalny e molti altri lo chiamano regime corrotto.
