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Iraq: così fallisce un Paese

Iraq: così fallisce un Paese

Crisi economica, influenza iraniana e presenza di forze internazionali, tra cui anche gli italiani. E le elezioni parlamentari del 10 ottobre non cambieranno nulla.


Le bancarelle del mercato di Shorja, uno dei più grandi e antichi di Baghdad, erano sempre affollate da clienti in cerca di spezie, frutta secca, tessuti, smalto per unghie, mollette di plastica per capelli, matite colorate. Ora i suoi corridoi sono quasi vuoti. Come gli altri suq, i ristoranti e i negozi della capitale. La pandemia e la devastante crisi finanziaria hanno piegato un Paese seduto su un gigantesco tesoro petrolifero. Dalla caduta del dittatore Saddam Hussein, nel 2003, le fibrillazioni si sono succedute una dopo l’altra, prima la guerriglia con gli Usa, poi i conflitti settari, fino alle mostruosità dell’Isis.

Questa volta però i nemici sono la corruzione e le ingerenze delle milizie legate all’Iran. Lo scorso dicembre i manifestanti hanno appiccato il fuoco alle sedi dei maggiori partiti politici e agli uffici governativi. Le proteste sono state scatenate dai ritardi nel pagamento dei salari. Gli stipendi degli impiegati statali assieme alle pensioni costano circa 5 miliardi di dollari al mese al governo e con il Covid molti hanno perso il lavoro pure nel settore privato. L’elettricità scarseggia, anche perché Teheran – già in sofferenza per la propria crisi – ha tagliato le esportazioni di corrente e di gas naturale. E gran parte del Paese è rimasto al buio.

Najah Mushid, 63 anni, impiegato di banca a Baghdad racconta: «L’Iraq sta attraversando un dissesto economico simile a quello libanese. Il dollaro è schizzato alle stelle, non abbiamo più benzina e i prezzi di tutti i tipi di merce sono inavvicinabili». La «congiuntura» è infatti la peggiore da due decenni. I governi non sono in grado di offrire soluzioni e cadono uno dopo l’altro. L’anno scorso è stato estromesso l’ex premier Adel Abdul Mahdi in seguito a proteste oceaniche dell’ottobre 2019, proseguite fino al 2021. Allora migliaia di persone si erano riversate nelle strade della capitale e a piazza Tahrir, l’epicentro di una «rivoluzione» che correva in parallelo con quella libanese. Il risultato è stato lo stesso, un fallimento. Solo più sanguinoso.

La polizia ha sparato prima gas lacrimogeni, poi proiettili veri. Bilanci ufficiali non ce ne sono. L’opposizione parla di oltre 900 morti e 25.000 feriti, molti colpiti dalle milizie. Alla fine è arrivato un nuovo premier, Mustafa al-Kadhimi, meno legato agli iraniani, ma i problemi economici si sono aggravati. Il malcontento potrebbe trasformarsi in guerriglia tra gruppi armati. Il crollo dei prezzi del petrolio e del gas, che rappresentano il 90% delle entrate, è stata la mazzata finale. Il paradosso è che mancano persino i carburanti. Colpa anche della corruzione e delle guerre a ripetizione: tre devastanti dagli anni Ottanta, che hanno distrutto raffinerie e centrali elettriche, l’ultima del 2003 condotta dagli Stati Uniti per rovesciare Saddam, il dittatore sanguinario che affamava la popolazione, ma aveva nei bagni dei suoi palazzi rubinetti placcati oro.

«Quando l’attività principale, la produzione di greggio, diventa meno redditizia, ecco la depressione economica» sottolinea a Panorama Robert Springborg, professore del King’s College di Londra. «Nel caso dell’Iraq il dominio del petrolio ha soffocato la crescita in altri settori chiave, come l’agricoltura. La sua economia è strettamente legata e influenzata da quella iraniana, così come quella libanese. L’Iran ha i suoi lealisti sui libri paga di questi due Stati, l’Hashd al Shaabi in Iraq e Hezbollah in Libano. Nessuno dei due Paesi ha un’economia veramente sovrana».

Per decenni i proventi ricavati dal petrolio hanno sostenuto un sistema burocratico elefantiaco. Il governo riesce a mantenere il suo consenso affidando i ministeri alle varie fazioni politiche, che a loro volta assegnano centinaia di migliaia di posti di lavoro nell’amministrazione pubblica. Questo sistema dal 2004 è triplicato. Il 40% della forza lavoro dipende dai contratti del governo.

L’enorme spesa ha comportato di conseguenza pochi investimenti per le infrastrutture. Per arginare il tracollo il potere centrale è stato costretto a bruciare le sue riserve in valuta forte e a stampare moneta. Il dinaro si è svalutato, per la prima volta da decenni. Il risultato è stata un’inflazione paurosa. E nonostante le smentite del governo, sono in vista altri deprezzamenti.

Baghdad importa quasi tutto dall’estero. E 700.000 giovani entrano nel mercato del lavoro ogni anno, aggiungendosi alle masse di poveri e diseredati. Il premier Al-Kadhimi, ex capo dell’intelligence ed eroe nella lotta all’Isis, è in una posizione di debolezza, senza una base politica. All’inizio del suo incarico aveva un ampio sostegno. Era considerato intelligente, apolitico, pragmatico e vicino agli americani. La crisi l’ha logorato.

Così il 10 ottobre ci saranno nuove elezioni parlamentari e verranno decisi anche il presidente e il premier nuovi. Al-Kadhimi sarà il probabile capro espiatorio della crisi per i partiti, ricattati dalle milizie e odiati dalla popolazione. Il primo ministro ha provato a porre l’Iraq in una posizione di equidistanza regionale, più lontano dall’Iran e più vicino all’Arabia Saudita, e ha destato scalpore il suo lungo abbraccio con il principe ereditario Mohammed bin Salman. Da quando è entrato in carica infatti ha applicato le sanzioni americane e bloccato tutte le transazioni verso l’Iran.

Ciò non vuol dire che le milizie sostenute da Teheran non continuino a dominare l’Iraq. Molte sono state coinvolte nella violenta repressione delle proteste del 2019. Ultimamente, però, sono state ridimensionate. Per le vie ci sono meno cartelli dei loro ayatollah e generali, e i gruppi armati sono meno presenti per le strade. L’uccisione del generale iraniano Qasem Soleimani e Abu Mahdi al-Muhandis, il capo della milizia Kataib Hezbollah, in un raid americano il 3 gennaio 2020, le ha indebolite. Nell’aprile dello stesso anno, Kataib Hezbollah ha accusato proprio al-Kadhimi di essere colpevole della morte dei due suoi leader e di lavorare per conto degli Stati Uniti.

«La presenza militare degli Usa in Iraq fornisce un contrappeso all’Iran. Da qui la causa degli attacchi contro l’America da parte delle Forze di Mobilitazione Popolare» precisa Springborg. «Quando e se le forze statunitensi se ne andranno, l’Iraq sarà a tutti gli effetti un satellite dell’Iran». Dopo 18 anni di guerra e guai, Donald Trump e poi Joe Biden hanno deciso di ridurre le truppe americane nel Paese. Sono rimasti soltanto 2.500 soldati, in parte compensati dai militari di altri Paesi Nato, esposti di continuo ad attacchi con razzi e droni.

Anche le forze italiane sono presenti con 1.100 donne e uomini, 270 mezzi terrestri e 12 aerei, schierati in una base a Erbil e una a Baghdad. Non solo: il nostro Paese si è candidato a guidare dall’anno prossimo la nuova missione in Iraq nel ruolo attuale degli americani. Ciò comporterà anche un maggiore contributo di forze: almeno altri 500 uomini.

«Gli obiettivi della missione italiana sono molteplici» dice il generale Carlo Jean. «Non dimentichiamo poi la strage di Nassiriya». Il 12 novembre 2003 un camion imbottito di esplosivo, guidato da due kamikaze di Al Qaeda, devastò la base degli italiani, 19 i morti. «La presenza dell’Italia» continua Jean «ha rafforzato le relazioni con le aziende italiane, soprattutto l’Eni. E ora i militari vigilano che non ci sia una “resurrezione” dello Stato Islamico».

In caso di collasso, l’Iraq rischia di diventare anche un problema per la sicurezza internazionale. Terroristi iracheni potrebbero raggiungere l’Europa attraverso la Turchia e la costa mediterranea della Siria. «Tutti i Paesi islamici legati ad Al Qaeda o all’Isis, come il Sahel, l’Afghanistan, la Nigeria sono hub per il reclutamento di terroristi che si spostano in Europa per compiere attacchi» conferma Jean.

Intanto, gli Stati Uniti e la comunità internazionale restano alla finestra. Il Paese avrà bisogno di soldi. Ma sarà importante attuare alcune riforme: tagli alla spesa pubblica, misure anti-corruzione, integrazione delle milizie nell’esercito. Al-Kadhimi ha eliminato l’obbligo del visto per i visitatori provenienti da 36 Paesi, tra cui Usa, Cina e quelli dell’Ue.

È una mossa per ridurre la burocrazia, incoraggiare gli investimenti e dare il via alla ricostruzione. Un primo passo per aprire l’Iraq al mondo. In questo senso va interpretato anche l’incontro a marzo scorso nella città santa di Najaf di Papa Francesco con il Grande ayatollah Ali al-Sistani, la massima autorità religiosa sciita del Paese. L’immagine dei due leader religiosi seduti, insieme, contriti, ha fatto il giro del mondo ed è senza precedenti nella storia. Da dimostrare quanto possa pesare nella normalizzazione irachena.

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