Il «regalo» per le celebrazioni dei 62 anni della rivoluzione è una riforma economica dolorosissima che renderà ancora più povero quel 90% degli abitanti che non ha accesso ai dollari. Intanto, però, il mito di Fidel Castro e Che Guevara va definitivamente in frantumi con le proteste dei cittadini esasperati.
Il primo gennaio scorso il totalitarismo cubano ha celebrato il suo 62esimo anniversario. È difficile che un regime sia durato tanto al potere e, nell’ultimo secolo, solo l’Arabia Saudita, dal 1933 una monarchia assoluta, la Cina, dal 1947 una dittatura comunista e la Corea del Nord, dal 1953 una satrapia della famiglia Kim, fanno «meglio» dell’Avana.
Non avendo il petrolio dei sauditi, né la potenza geopolitica globale di Pechino, né l’arsenale nucleare di Kim Jong-un, com’è riuscita la dittatura comunista cubana a mantenersi salda al potere? «Grazie alla paura, l’oppressione, le fucilazioni, le costanti violazioni dei diritti umani, la fame e il controllo sociale ed emotivo di un’intera nazione» dice a Panorama Cristian Crespo, figlio di due medici cubani fuggiti a Santiago del Cile dalla miseria degli anni Novanta, quando dopo il crollo dell’Urss, Fidel Castro trasformò l’isola in una sorta di gulag caraibico.
All’epoca ci furono rivolte celebri come «El Maleconazo», la ribellione del 1994 sul lungomare dell’Avana repressa nel sangue, con il carcere per molti mentre decine di migliaia di figli della rivoluzione fuggivano dal «paradiso» comunista. Certo, «ogni dittatura usa i metodi descritti da Cristian, solo che la narrativa costruita intorno a Cuba in Occidente è stata quanto più di parte si possa immaginare, anzi, nessun totalitarismo negli ultimi 60 anni ha avuto una stampa e un mondo intellettuale così benevolo nei suoi confronti» spiega Héctor Schamis, analista, scrittore e professore di geopolitica alla Georgetown University.
Già, la narrativa. Perché quando i barbudos guidati da Fidel arrivarono all’Avana, il primo gennaio del 1959, nessuno si sarebbe aspettato che di lì a qualche anno sarebbe cambiata l’intera mappa politica dell’America Latina. Il leader máximo, di famiglia borghese, che aveva studiato dai gesuiti, si era infatti presentato come un guerrigliero democratico e liberale, non come un comunista.
Si era fatto persino finanziare dalla Bacardi e dal principale latifondista cubano dell’industria dello zucchero di canna, oltre a promettere elezioni libere non appena rovesciata la dittatura di Fulgencio Batista, il militare dell’epoca appoggiato dalla Casa Bianca e dai gruppi mafiosi che gestivano casinò e prostituzione all’Avana. Naturalmente Castro fece l’esatto contrario di quanto aveva promesso e fu l’inizio della Guerra fredda anche in questa parte di mondo. Prima Fidel e Raúl eliminarono i leader guerriglieri non comunisti loro compagni di rivoluzione, poi scelsero l’Urss e il suo socialismo.
L’escalation del totalitarismo comunista fu immediata: dalla nazionalizzazione delle multinazionali Usa si arrivò alla crisi dei missili del 1962 poi, nei decenni a seguire, Cuba accolse migliaia di guerriglieri da tutto il mondo «per allenarli a diffondere a livello globale la rivoluzione». In quegli anni i leader del comunismo europeo andavano in pellegrinaggio all’Avana, dove nel 1967 Giangiacomo Feltrinelli ottenne da Peter Korda una foto scattata al Che sette anni prima. L’editore ne tappezzò subito le vie di Milano, oltre a farci una copertina su Paris Match, poco prima della morte in Bolivia di Guevara.
Nacque così uno dei simboli più potenti del ’68 francese e italiano e, da allora, nell’interpretazione di tutta la sinistra mondiale, compresa quella cattolica della Teologia della Liberazione, il Che è uno dei simboli di pace, un’icona dello slogan dei sessantottini «fate l’amore, non fate la guerra», insieme a Gandhi e Madre Teresa.
La realtà, purtroppo, è differente visto che sono stati provati sinora almeno 144 omicidi commessi direttamente da lui; e quando la rivoluzione prese il potere, all’inizio del 1959, come primo mestiere fece di fatto il boia. Tra le vittime del Che compagni di guerriglia, poliziotti uccisi di fronte ai figli, ragazzini e decine di oppositori politici fucilati nel Forte della Cabaña, oggi meta turistica, tutti «fatti fuori» al paredón, al muro.
Più della violenza tipica di ogni dittatura, è forse questa distorta conoscenza della storia causata da una narrativa di parte che spiega ancor oggi la complicità con la dittatura cubana di Paesi come Spagna o Italia. Basti pensare alle «brigate mediche» cubane, accolte con le fanfare da Madrid e Roma durante la prima ondata di Covid-19: in realtà, vittime del lavoro schiavo che il regime dell’Avana adotta da 15 anni come politica di Stato.
Le cose stanno però cambiando dall’interno perché, a differenza degli anni Novanta quando dalla crisi Fidel riuscì a uscire grazie al petrolio del Venezuela di Hugo Chávez, oggi non esistono più salvatori esterni disposti a dissanguarsi per l’Avana. Inoltre, le grida di protesta e di «abbasso la dittatura» che ci sono state in tutta l’isola lo scorso 31 dicembre al passaggio del nuovo anno, sono solo l’ultima dimostrazione che un numero sempre maggiore di cubani è disposto a denunciare che la narrativa raccontata dalla sinistra mondiale è fasulla. Molti i video delle ribellioni finiti online, le più rumorose a Santiago di Cuba, e questo nonostante le persone che protestavano fossero circondate dalle forze di repressione del regime che, però, fanno sempre meno paura.
Una rabbia che è destinata solo ad aumentare. Anche perché dopo «la Rivoluzione dei girasoli» divampata lo scorso settembre, dalla matrice soprattutto contadina, dopo la protesta del Movimento San Isidro, in cui ci sono stati soprattutto artisti e intellettuali che a novembre hanno sfidato la repressione davanti al ministero della Cultura del regime, ora la rabbia ha una drammatica causa socio-economica. Il 2021 non è infatti iniziato solo con le celebrazioni per una rivoluzione vecchia di 62 anni a cui non crede più nessuno, ma anche con una riforma economica dolorosissima per «el pueblo». Il presidente Miguel Díaz-Canel ha unificato le due monete e il peso convertibile, il cosiddetto Cuc creato negli anni Novanta per sottrarre le rimesse in dollari ai cubani, è stato eliminato. Quando lo introdusse, Fidel aveva detto, tronfio, che «con il Cuc metteremo fine all’egemonia del dollaro».
La realtà, come al solito, a Cuba è stata molto diversa e i dollari, quelli veri, negli ultimi decenni se li sono intascati i politici di spicco con le loro famiglie e i vertici militari che appoggiano il regime. L’ennesimo «esperimento» rivoluzionario finito senza gloria ma destinato a causare un sicuro sconquasso visto che quest’anno si prevede un’inflazione senza precedenti che dimezzerà il potere d’acquisto del 90% dei cubani; che, non avendo accesso ai dollari veri, dal primo gennaio scorso sono ufficialmente ancor più miserabili.
