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Cuba: atto finale

Cuba: atto finale

Le prossime proteste organizzate potrebbero incendiare l’isola, sempre più assediata dalla miseria e dalla mancanza di libertà.


«Il prossimo 15 novembre la nostra decisione personale sarà marciare pacificamente per i nostri diritti. Di fronte all’autoritarismo, risponderemo con civiltà e ancora civiltà». A parlare è Yunior García, attore e drammaturgo 39enne che, nonostante la proibizione imposta dalla dittatura di Cuba, è pronto a scendere in piazza a metà mese per il cambiamento e la libertà, sfidando il regime comunista che accusa Yunior di essere «eterodiretto» dagli Usa.

Con un’aria giovanile e gli occhiali, fuma sul balcone del suo appartamento a La Coronela, un quartiere popolare dell’Avana. «Devo smettere» confessa, preoccupato per la scarsità di sigarette e il loro prezzo astronomico sul mercato nero dell’isola, impantanata da anni in una profonda crisi economica e sociale. La televisione di Stato gli ha dedicato un servizio denunciando l’appello alla marcia come una «provocazione» e accusandolo di essere sostenuto dagli Stati Uniti che, a detta del presidente Miguel Díaz-Canel, promuoverebbero «la destabilizzazione a Cuba, sollecitando l’intervento militare».

«Mi hanno chiamato mercenario. Ho risposto: sapete chi mi paga e quanto vengo pagato? Il mio unico datore di lavoro è lo Stato e sono pagato dal Consejo nacional de las Artes escénicas, il Consiglio cubano delle arti sceniche, con cui lavoro, ricevendo meno di 4.000 pesos al mese (l’equivalente di 143 euro, ndr)».

Nato a Holguín, García è molto noto per le sue commedie e sceneggiature per la tv e il cinema cubano. Ma dopo il 27 novembre 2020, quando centinaia di artisti del Movimento San Isidro avevano manifestato per chiedere più libertà di espressione, ha assunto un altro ruolo, anche se a malincuore: è diventato il rappresentante di una nuova generazione critica del governo, tra cui moltissimi giovani, artisti, giornalisti indipendenti e accademici, la maggior parte dei quali non affiliati a partiti politici.

Quando l’11 luglio scorso l’isola era stata scossa da massicce manifestazioni spontanee senza precedenti dalla rivoluzione del 1959, Yunior non ha esitato a parteciparvi. È in quel momento che è scattato il clic. Ovvero chiedere alle autorità di autorizzare la prima manifestazione non pro regime negli ultimi 62 anni. La risposta della dittatura cubana non si è fatta attendere: divieto di marce «illecite» in tutto il Paese perché, per sintetizzarla in poche parole, «mettono in discussione il regime e il partito unico». Chiunque tenti di scendere in piazza tra qualche giorno, dunque, finirà in carcere.

Questo Yunior e le migliaia di cubani che si sono dati appuntamento per il prossimo 15 novembre lo sanno bene. «Un grande messaggio, quello del regime, per tutti coloro che protestano nelle nazioni libere chiedendo un sistema come quello cubano» spiega con amara ironia Agustín Antonetti, 20enne attivista pro diritti umani argentino che per la sua attività informativa su Cuba via Twitter è stato inserito (come chi scrive del resto) nella black list del regime dell’Avana.

La manifestazione del 15 novembre si dovrebbe estendere a 7 delle 15 province e, solo sul lungomare dell’Avana, il celebre Malecón. L’obiettivo minimo è riunire almeno 5.000 manifestanti, che per Cuba sarebbero un’enormità senza precedenti. Oltre a libertà, cibo e medicinali (sull’isola mancano gli antibiotici), i giovani cubani chiederanno la liberazione dei tanti prigionieri politici, oltre 500, molti dei quali incarcerati senza processo e torturati dopo la marcia dell’11 luglio scorso.

Tra questi vi sono esponenti di spicco come l’attivista pro diritti umani José Daniel Ferrer, fondatore dell’Unione patriottica di Cuba, l’Unpacu, l’associazione anti-dittatura più forte sull’isola, in cella d’isolamento da quasi 4 mesi. Probabilmente viene torturato e a detta di molti è in pericolo di vita al pari di Luis Manuel Otero Alcántara, come denuncia Amnesty International.

Una cosa è però chiara: nonostante il divieto della dittatura, Yunior García non si arrende perché «protestare è un diritto umano, un diritto costituzionale, quindi lunedì 15 novembre andrò a manifestare pacificamente come avevamo concordato». Certo, «è una decisione personale» perché non ha potuto parlarne con i suoi compagni «avendo il governo tagliato internet» e silenziato il telefono di molti dei 27.000 membri di Archipiélago, piattaforma di discussione politica su Facebook che vuole essere un laboratorio per una «Cuba plurale» in un Paese dove l’unico partito ammesso è quello comunista. Una piattaforma fondata e diretta dallo stesso Yunior.

«La risposta del regime dimostra ancora una volta che lo Stato di diritto non esiste a Cuba, pronto a non rispettare nemmeno la stessa costituzione pur di violare i diritti umani dei cubani» si legge sulla pagina Facebook di Archipiélago, che sottolinea anche come il «niet» del potere centrale abbia reso ridicolo lo stesso presidente della Corte suprema: il quale poche ore prima aveva detto che Cuba avrebbe rispettato il diritto a manifestare.

«La risposta del regime è piena di falsità, diffamazioni e bugie. E costituisce un crimine» hanno scritto i giovani cubani sui social.
«È una pentola a pressione che può esplodere in qualsiasi momento» racconta María, una giovane che vive nell’Avana Vecchia e intende partecipare alla marcia del 15 «perché siamo esasperati dalla mancanza di tutto, persino del sale da cucina». Ad «annusare l’aria» di Santiago di Cuba, la città di Ferrer, tutto lascia intendere che, nonostante i proclami della dittatura, si sia arrivati al punto di non ritorno. E che il regime abbia ormai gravissimi problemi lo dimostra anche il baseball cubano, che ha recentemente stabilito un nuovo record: oltre metà della sua nazionale under 23 (13 elementi su 24) ha chiesto asilo in massa durante un torneo di Coppa del mondo in Messico.

Il record precedente era del 1996, quando cinque atleti cubani che gareggiavano, sempre in Messico, scelsero di non tornare a casa per rifugiarsi negli Stati Uniti. All’epoca l’Avana penava per il crollo dell’Unione sovietica che aveva smesso di distribuire aiuti a pioggia e, non essendoci ancora il Venezuela di Hugo Chávez a foraggiare, quel periodo passò alla storia come «periodo speciale», speciale per la penuria di generi di prima necessità.

«Prima dello scorso 11 luglio» spiega l’economista e politologo Enix Berri Sardá, vicepresidente del Partido Demócrata Cristiano «le più grandi manifestazioni in 62 anni, quando moltissimi cubani scesero in piazza chiedendo non solo cose basilari come il cibo, ma anche la libertà, avvennero il 5 agosto 1994: era il “Maleconazo”, una protesta esplosa sul lungomare dell’Avana durante la presidenza di Fidel Castro».

La causa, ieri come oggi, era il disastro economico, ora dovuto al crollo degli aiuti che sino a qualche anno fa arrivavano dal Venezuela; e, spiega Enix, c’erano problemi simili a quelli che provocano le attuali proteste, come «le interruzioni di corrente infinite, di 12-14 ore, niente cibo e nessun trasporto pubblico».

Oltre alla fine del mito sportivo dell’Avana, con un numero sempre maggiore di atleti che scelgono la fuga per la libertà e uno stipendio degno, anche la tanto celebrata «medicina cubana» è in pessime condizioni. A renderlo esplicito una recente ricerca del Gremio Médico Cubano Libre, l’unico sindacato non foraggiato dalla dittatura, secondo cui ben 76 operatori sanitari della perla dei Caraibi, per lo più medici ma anche qualche infermiere, sono morti nelle ultime sei settimane di Covid dopo aver ricevuto le tre dosi di uno dei vaccini made in Cuba. «Sulla base di questi soli dati, la tanto sbandierata industria biomedica di Cuba sembra essere dunque sopravvalutata» per usare le parole del Wall Street Journal.

Benvenuti alla fine della «rivoluzione», insomma, visto che Cuba è allo sbando. E, nonostante una repressione senza precedenti, i cubani trovano sempre più modi per esprimersi, anche attraverso i Vpn – le reti virtuali private che garantiscono sicurezza – quando, quasi ogni giorno, il regime blocca internet.

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