Home » Attualità » Esteri » Africa: tra Vecchi Re e nuovi colonizzatori

Africa: tra Vecchi Re e nuovi colonizzatori

Africa: tra Vecchi Re e nuovi colonizzatori

Nell’Africa sub-sahariana è particolarmente difficile la strada verso la democrazia compiuta. Il quadro politico in troppi casi è ancora dominato da presidenti-padroni. In economia, poi, è la Cina il primo partner commerciale del continente con un incremento degli scambi dal 1990 del 700 per cento. Invece, l’Unione europea riesce con fatica a stringere accordi e partnership.


La «nuova colonizzazione» dell’Africa è il debito da 400 miliardi di dollari, per un terzo in mano ai cinesi. Situazione disastrosa causata dal difficile cammino verso una democrazia compiuta, costellato da padri-padroni che considerano i Paesi dove governano «cosa loro». E l’Unione europea, nonostante le tante buone intenzioni, non pare in grado di incidere ribaltando il destino del continente. Un esempio. L’Etiopia ha costruito la più grande diga sul Nilo, tra le proteste di Egitto e Sudan. Non è un caso che la società cinese State Grid abbia acquisito una quota di 1,8 miliardi della compagnia elettrica di Stato in cambio di una minima cancellazione del debito con Pechino. Quando la diga, quasi ultimata, sarà operativa, i cinesi moltiplicheranno per dieci i loro guadagni.

Dal 2000, Pechino ha prestato circa 150 miliardi di dollari a 56 nazioni africane. «In questi primi 60 anni di indipendenza, hanno diversificato i loro partner che non sono più soltanto le ex potenze coloniali, ma i nuovi attori dello scenario globale come appunto Cina, Brasile, Turchia, India e Stati del Golfo. Però non ha risolto un problema di fondo, ovvero la dipendenza economica del continente dall’esterno. È questa la vera sfida» sostiene Emanuela Del Re, ex viceministro agli Esteri. Proprio nel 2018 il presidente cinese Xi Jinping ha messo sul piatto al Forum della cooperazione Africa-Cina altri 60 miliardi di dollari e promesso all’Unione africana assistenza militare gratuita. La metà di questa dotazione – che potrebbe venire ridotta o rinviata dal Covid – prevede 20 miliardi per nuove linee di credito e 15 miliardi per incentivare gli imprenditori cinesi a sbarcare nel continente. Pechino ha investito su 30 mila chilometri di autostrade, 85 milioni di tonnellate all’anno di attività portuali e nella produzione di 20 mila megawatt d’energia.

La costruzione del quartier generale dell’Unione africana ad Addis Abeba è un simbolo della «colonizzazione» economica. Non solo: i mandarini comunisti si sono accaparrati, fra Africa e Sudamerica, oltre 3 milioni di ettari fertili per i bisogni futuri di 1,4 miliardi di cinesi.

Discorsi della UE, affari di pechino

Il risultato è che nel 2019 Ghana, Sudafrica, Egitto, Costa d’Avorio e Nigeria erano i maggiori debitori di Pechino assieme a Gibuti, Congo, Etiopia, Kenya, Zimbabwe, Zambia e Angola, con prestiti ancora più ingenti accumulati negli anni. Le banche cinesi sono il principale strumento creditizio per 32 Paesi africani e la schiavitù del debito, nonostante l’adesione cinese alla moratoria del G20, ha un enorme potere politico e di penetrazione economica.

«Dopo la cancellazione del debito degli inizi 2000, l’Africa è tornata a indebitarsi svendendo, come garanzia, gli asset strategici del continente» denuncia padre Giulio Albanese. Oltre alle miniere e ai giacimenti di petrolio, i cinesi sono interessati alle infrastrutture. Nonostante le smentite del governo, il Kenya rischierebbe di perdere il controllo del porto di Mombasa a favore dei cinesi se il Paese non restituirà i 3,2 miliardi di dollari prestati da Pechino per la ferrovia che arriva allo scalo marittimo da Nairobi.

E l’Europa non è in grado di competere con il Dragone. Alfredo Mantica descrive perfettamente la disparità: «Arrivano gli europei per trattare aiuti, prestiti, investimenti. Di solito ci sono sempre un norvegese, un olandese e talvolta un italiano. Fanno un piano e poi cominciano a stressare sul rispetto dei diritti umani e delle donne, l’infibulazione, le pari opportunità e così via. Gli africani li guardano come marziani». Per l’ex sottosegretario agli Esteri di due governi Berlusconi «i cinesi hanno gioco facile. Prestano soldi e chiedono in garanzia infrastrutture come il porto di Mombasa. Non mettono di certo sul piatto rivendicazioni di democrazia. Al contrario l’approccio europeo in Africa, fra burocrazia e politicamente corretto, è un disastro».

La posizione dell’Italia

La Commissione europea ha lanciato nel marzo dello scorso anno un mega piano strategico per l’Africa da 222 miliardi di dollari, che per ora rischia di restare in gran parte sulla carta. Gli obiettivi puntano alla «transizione verde e delle energie rinnovabili», la «trasformazione digitale», interventi per garantire «pace e sicurezza» e per affrontare le migrazioni.

«Per quanto ci riguarda, in questi anni ai leader del continente abbiamo cercato di mostrare che l’Italia differisce da altri partner per due cose fondamentali: qualità e innovazione tecnologica» ribatte Del Re. In febbraio la Farnesina ha varato la prima strategia a 360 gradi dai tempi del Bengodi della Cooperazione degli anni Ottanta; è vero che sono state aperte nuove ambasciate nel continente, ma sono sempre la metà circa rispetto a francesi e tedeschi. I 150 milioni di euro stanziati per interventi e cooperazione bilaterale non sembrano sufficienti. E nonostante la presidenza del G20, l’emergenza Covid smorzerà il cosiddetto «focus sull’Africa». Al vertice di Parigi del 18 maggio, il presidente francese, Emmanuel Macron, ha proposto 100 miliardi di dollari al continente dal Fondo monetario internazionale e vaccinazioni anti Covid a tappeto, appoggiato dal premier Mario Draghi. «La realtà dell’Africa oggi è più democratica rispetto a 60 anni fa, ma lo è meno rispetto ai piani delineati nell’Agenda 2063 (dell’Unione africana, ndr), ovvero il quadro strategico per la trasformazione socio-economica del continente nei prossimi 40 anni» aggiunge Del Re.

A partire dagli anni Novanta i vari Paesi si sono aperti al multipartitismo. Dagli anni Cinquanta il continente ha però registrato il più alto numero di colpi di Stato al mondo: un’ottantina. L’ultimo è avvenuto in Mali nell’aprile dello scorso anno. Però solo il 43 per cento dei Paesi sub-sahariani nel 2017 era democratico. Il trend è dei presidenti padri-padroni, che vanno al potere con le armi o elezioni più o meno libere, e ci rimangono a vita o quasi.

Dal 1990 al 2019 ben 42 presidenti di 31 Stati africani hanno completato legalmente il loro mandato, ma poi si sono fatti da parte solo nel 53 per cento dei casi. Gli altri hanno riscritto la costituzione e allungato a dismisura i limiti dei mandati: come Yoweri Museveni in Uganda al potere dal 1986, Paul Biya in Camerun dal 1982, Paul Kagame in Ruanda dal 1994 solo per citarne alcuni. Oppure occupano il potere conquistato con le armi governando come autocrati sullo stile di Mu’ammar Gheddafi in Libia e di Isaias Afwerki in Eritrea. «In certi casi i mandati dei capi di Stato africani diventano eterni» ironizza Alfredo Mantica. «Si creano dei miti perché la democrazia ancora non funziona. Museveni e Kagame non sono ovviamente principi del diritto, ma sanno come governare i loro popoli».

Negli ultimi dieci anni la situazione è migliorata con due terzi dei presidenti, che allo scadere dei mandati hanno lasciato il potere. Eppure Gabriele Petrone, consigliere per la sicurezza in Africa, sostiene che «poco è cambiato negli ultimi 60 anni. Arrivano al vertice, democraticamente o meno, pensando che sia un possesso personale e di clan. Invece è cambiato il popolo, soprattutto i giovani collegati a internet, che non hanno più voglia di guerre e vorrebbero ribaltare il sistema dei presidenti-sovrani».

Se alla politica del continente resta una lunga strada democratica da percorrere la sorpresa potrebbe arrivare dalla Chiesa. Con la sua competenza di esperto e sacerdote, Giulio Albanese si affida «alla fantasia dello Spirito santo» e conclude: «Se abbiamo avuto un Papa polacco e ora uno argentino, un domani potrebbe arrivare a Roma un Papa africano».

© Riproduzione Riservata