Dal terrorismo ormai insediato nel Sahel ai presidenti rovesciati in Sudan o Guinea, dal mancato voto in Libia alla guerra in Etiopia. Il continente è sempre più instabile. E mentre le grandi potenze curano i propri interessi, l’Italia è chiamata a difficili missioni di sorveglianza e di pacificazione.
La mattina del 25 ottobre scorso il generale Stéphane Dupont, comandante delle forze francesi a Gibuti, si stava preparando per volare a Khartum con l’obiettivo di riesumare la cooperazione militare con il Sudan. Nelle stesse ore il generale Abdel Fattah al-Burhan organizzava il colpo di Stato per destituire il primo ministro sudanese Abdalla Hamdok. Il quarto golpe del 2021 in Africa, tutti a nord dell’Equatore, dopo Ciad, Guinea e Mali. E a Natale anche la Somalia era sull’orlo di un conflitto tra il premier e il presidente con blindati nelle strade di Mogadiscio. Se aggiungiamo le elezioni saltate in Libia, la guerra in Etiopia del premio Nobel per la pace, Abiy Ahmed, che utilizza i droni turchi, Algeria e Tunisia con la democrazia sospesa, mezza Africa è nel caos. «Nordafrica e Sahel stanno vivendo un momento di grandi fibrillazioni» dice Emanuela Del Re, rappresentante speciale dell’Europa nell’area. «Dalla mia esperienza in questi mesi negli Stati del Sahel parlando con i leader così come con la società civile e la popolazione in genere, appare chiaro che nessuno vuole il caos, ma pochi sanno cosa sia l’ordine».
ELEZIONI FANTASMA
La crisi che ci riguarda più da vicino è quella libica. Le elezioni tanto decantate dalla comunità internazionale del 24 dicembre, il giorno del 70esimo anniversario dell’indipendenza, sono evaporate a causa delle milizie che hanno mostrato i muscoli. Oltre ai bastoni fra le ruote dei Fratelli musulmani appoggiati dalla Turchia e ai veti incrociati dei signori della guerra libici. «Se salterà il voto anche a gennaio temo non si andrà alle urne a lungo» riflette Paolo Quercia, analista di politica estera e coautore del saggio Naufragio Mediterraneo. «Lo status quo è più resiliente di ciò che appare. Le divisioni dei libici rafforzate dalla presenza di alcuni attori internazionali si consolideranno». I sondaggi artigianali danno per vincente Seif el Islam, il figlio delfino del colonnello Mu’ammar Gheddafi, «ma è un nome che divide. Come d’altronde gli altri candidati» osserva Quercia. «In tutti questi anni non è emerso un leader unificatore e ci sono molte figure del vecchio regime». La lista ufficiale dei candidati ammessi al voto non è mai stata pubblicata. Il rischio era far scoppiare di nuovo la guerra civile. Lo stesso premier, Abdulhamid Dabaiba, anch’egli in lizza, era uno stretto collaboratore di Seif el Islam. Adesso ha tecnicamente concluso il suo mandato di 18 mesi, che doveva portare il Paese alle urne, ma continua a governare a Tripoli. Le tensioni elettorali, oltre che alle barricate delle milizie nella capitale, hanno portato alla chiusura dei pozzi nel Sud-Ovest e delle raffinerie in Tripolitania. E l’instabilità fa il gioco dei trafficanti di uomini. Il 28 dicembre erano sbarcati in Italia, dall’inizio dell’anno, 66.428 persone, il doppio rispetto al 2020 e sei volte tanto rispetto al 2019. Le partenze non si fermano d’inverno come accadeva di solito. Grazie alla flotta delle ong del mare, attorno a Natale sono sbarcati o attendevano di farlo 1.218 migranti recuperati al largo della Libia dalle navi Sea-Watch 3, Geo Barents, Sea-Eye 4 e Ocean Viking.
OMBRE RUSSE
«In Africa, le ondate di tre o più colpi di Stato militari avvenuti in un solo anno sembravano appartenere al passato. I golpe sono ripresi nel 2021 con una serie di quattro, in poco più di sei mesi, in Sudan, Mali, Ciad e Guinea» scrive Giovanni Carbone in un’analisi dell’Ispi, l’Istituto per gli studi di politica internazionale. Il 24 maggio i militari maliani hanno rimosso il presidente e il primo ministro con il terzo golpe in un decennio e il secondo negli ultimi due anni. Il colonello Assimi Goïta, ex comandante dei corpi speciali e vice presidente, è il capo della nuova giunta, che cavalca le proteste popolari contro il governo francese, storico padrino del Paese. I veri esecutori del golpe dei colonnelli sono Malick Diaw e Sadio Camara, che in gennaio erano volati a Mosca per un corso di addestramento. La giunta militare starebbe chiudendo un accordo con la milizia Wagner, i contractor del Cremlino, per dispiegare 500 paramilitari in varie aree per presidiare obiettivi sensibili comprese le miniere. Il Dipartimento di Stato americano parla di un contratto «di 10 milioni di dollari al mese», ma i militari golpisti smentiscono seccamente. «Nelle aree di squilibrio africane c’è chi ne approfitta come francesi e americani» fa notare l’ex generale dei paracadutisti Marco Bertolini. «La Russia lo fa per interposta persona con la Wagner, che non è niente di diverso dalla vecchia società di sicurezza Blackwater utilizzata da Washington». Il 19 dicembre scorso un Tupolev Tu-154M delle forze aeree russe, già segnalato dall’intelligence europea per missioni segrete, è atterrato nell’area militare dell’aeroporto di Bamako, la capitale maliana. Il velivolo decollato da Mosca aveva fatto sosta a Damasco e Bengasi. Tre giorni dopo, alla vigilia di Natale, 16 nazioni occidentali, Italia inclusa, hanno firmato una dichiarazione congiunta, che condanna «con fermezza» lo stazionamento di «truppe mercenarie» in Mali. La giunta nega ed entra in gioco il Cremlino: Mosca continuerà a fornire la sua interessata assistenza militare «attraverso i canali statali». Del Re, ex viceministro degli Esteri, che oggi rappresenta l’Europa per il Sahel, ha incontrato il colonnello Goïta dicendogli che «un eventuale accordo con la società paramilitare Wagner rappresenta per l’Unione europea una linea rossa da non oltrepassare. L’Ue resta il partner più importante per il Sahel, i cui Paesi ben sanno cosa comporterebbe perdere tale rapporto».
MISSIONI AD ALTO RISCHIO
L’Italia è coinvolta nel ginepraio maliano con due missioni a Bamako di addestramento con Ue e Onu, oltre a quella più impegnativa nel cuore del Sahel. I francesi, che erano intervenuti nel 2013 per fermare l’avanzata jihadista nel Paese, hanno deciso di dimezzare le truppe nella regione, dopo perdite significative e risultati non definitivi, e hanno coinvolto gli alleati europei. «Parigi ha grande capacità di marketing strategico» sottolinea Bertolini. «È riuscita a convincere gli alleati, come l’Italia, a far diventare prioritari i suoi interessi». La Difesa si è impegnata nella task force Takuba, composta da corpi speciali europei, che deve garantire «consulenza e assistenza» alle unità antiterrorismo maliane. L’area di operazioni, ribattezzata l’Afghanistan africano, è quella insidiosa nella zona dei «tre confini» (Mali, Niger, Burkina Faso) infestata dal Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani, affiliato ad Al Qaeda e dallo Stato islamico del grande Sahara. Il nostro Parlamento ha autorizzato l’invio di otto elicotteri per l’evacuazione medica, compresi quelli d’attacco Mangusta per la protezione, e una scorta di 200 uomini. «Siamo presenti in Libia, Niger e Mali» aggiunge Bertolini. «Rischiamo però di restare da soli in mezzo ad acque tempestose dove si muovono i grandi bastimenti francesi, russi, americani e turchi. Nel caos africano, noi possiamo contare su una scialuppa a remi». Il 14 dicembre la Francia ha ammainato la bandiera nella storica base di Timbuktu e ha passato il comando della task force Takuba agli svedesi. Il ministro della Difesa tedesco, Christine Lambrecht, minaccia di ritirare i 1.500 militari che addestrano le truppe del Mali per l’aggravarsi della minaccia terroristica. E il 17 dicembre il presidente francese Emmanuel Macron ha cancellato l’atteso viaggio nello Stato africano per incontrare il capo della giunta, ufficialmente per l’emergenza pandemica in patria.
COLPI DI STATO «À LA CARTE»
La Francia perde posizioni anche in Sudan, dove la Russia avrebbe aiutato i golpisti di Khartum in cambio di un accesso della propria flotta a Port Sudan, posizione strategica sul corridoio del mar Rosso. Secondo Joseph Siegle del Centro africano di studi strategici anche gli «Emirati, l’Arabia Saudita e l’Egitto hanno visto i colpi di Stato africani come un mezzo per rafforzare le loro ambizioni regionali. E sponsorizzato attivamente i militari sudanesi per mantenere il potere». Questi Paesi arabi sarebbero pure «stati impegnati dietro le quinte per incoraggiare e fornire copertura all’auto-golpe di Kais Saied in Tunisia», il presidente che ha sciolto il parlamento. In Ciad «un colpo di Stato istituzionale» ha portato al potere Mahamat, figlio del padre-padrone del Paese, Idriss Déby Itno, ucciso in combattimento il 20 aprile per fermare i ribelli del Fronte per la concordia e il cambiamento arrivati dalla Libia con l’appoggio del generale Khalifa Haftar. Il Qatar ospiterà a Doha, dopo il disastroso negoziato che ha riportato al potere i talebani, l’avvio di un dialogo nazionale per il Ciad. Il colonnello Mamady Doumbouya sì è inventato in Guinea «il colpo di Stato correttivo», che ha deposto il 5 settembre il presidente Alpha Condé. Dall’indipendenza del 1958 questo è il terzo golpe. I militari vogliono controllare lo sfruttamento delle miniere di oro, bauxite e ferro che fanno gola a Emirati, India e Cina.
L’ultima dimostrazione muscolare si è registrata a Natale in Somalia. Il presidente uscente, Mohamed Abdullahi «Farmajo», ha nuovamente sospeso i poteri del premier Mohamed Hussein Roble con il pretesto di ingerenza nelle indagini su un caso di appropriazione indebita. I militari fedeli al presidente avrebbero impedito al premier di accedere al suo ufficio. Il capo del governo, però, ha inviato i blindati attorno al palazzo presidenziale e annunciato che i responsabili del fallito golpe saranno perseguiti». A Mogadiscio l’Italia conta 148 soldati, nel contesto della missione di addestramento europea sotto il comando del generale Fabiano Zinzone. Il vero nodo del contendere sono le elezioni parlamentari che dal primo novembre dovevano concludersi il 24 dicembre; ma su 275 seggi disponibili, sono stati eletti pochissimi candidati.
LA GUERRA DEL NOBEL PER LA PACE
In dicembre, dopo un anno di combattimenti con massacri da ambo le parti, il primo ministro dell’Etiopia Abiy Ahmed ha ribaltato le sorti del conflitto respingendo i ribelli del Tigray. Il premier stesso si è messo alle testa delle truppe, facendo ritirare i tigrini grazie ai droni forniti dalla Turchia e pagati dagli Emirati arabi. Nel 2019 Abiy era stato insignito del premio Nobel per la pace realizzata con Isaias Afwerki, l’autoritario leader eritreo storicamente in guerra con Addis Abeba. L’ex colonnello Abiy aveva proclamato a Oslo, ricevendo il riconoscimento, che «la guerra è l’epitome dell’inferno». In realtà stava già pianificando il conflitto per mettere in riga il Tigray. «Il premier etiope ha fatto la pace con l’Eritrea per avere un alleato e combattere i tigrini» sostiene Alfredo Mantica, ex sottosegretario agli Esteri. «Gli hanno dato il Nobel per poi fare la guerra». E tornare alla casella di partenza grazie ai TB2 Bayraktar, i droni turchi che dopo l’utilizzo in Libia ed Etiopia, come nell’asiatico Nagorno-Karabakh, sono l’oggetto del desiderio dei governi africani. Tunisia e Marocco li hanno già acquistati; ora sono interessati anche Ciad, Angola e Togo. Mantica, vicepresidente della ong Avsi, non ha dubbi: «Si salva il Marocco grazie alla monarchia. Per il resto in Africa subsahariana e in tutto il continente non sta migliorando nulla».
