L’indipendenza di molti suoi Stati si è compiuta oltre mezzo secolo fa. Ma conflitti, disuguaglianze, sfruttamento da parte di superpotenze straniere e crescita demografica rendono ancora difficile il percorso verso lo sviluppo e la democrazia. Panorama racconta, con un dossier in tre tappe, contraddizioni e prospettive di un continente con cui il mondo dovrà fare sempre più i conti.
Nel gennaio scorso ha vinto per la sesta volta le elezioni presidenziali duramente contestate dall’opposizione, che adesso ne subisce le conseguenze. Attivisti, avvocati, difensori dei diritti umani vengono prelevati dai «droni» e spariscono per mesi dentro le caserme dei pretoriani di Yoweri Museveni dove vengono incappucciati, picchiati e gettati in celle con l’acqua fino al collo. Sessant’anni dopo Uhuru, l’indipendenza dell’Africa che cominciò in nazioni come Nigeria e Sierra Leone, i vecchi sistemi sono duri a morire. La democrazia rimane un miraggio per oltre il 50% degli Stati a sud del Sahara. E negli altri ogni tanto zoppica o viene bruscamente sospesa da rivolgimenti interni.
Il continente è sempre attanagliato da crisi endemiche e nuove minacce. Proprio nell’anno dell’anniversario, il 2020, il flagello del Covid ha colpito anche l’Africa. Le prospettive dell’impatto sull’economia sono disastrose; ma, al di là del virus, su 54 Paesi africani 21 sono ancora travolti o lambiti da conflitti armati. Per non parlare della crescita demografica. Oggi la popolazione africana conta 1,2 miliardi di persone, nel 2050 è previsto il raddoppio a 2,3 miliardi. Il continente assorbirà il 57% della crescita globale e il 23% della popolazione mondiale sarà sub-sahariana. Il previsto aumento dei poveri (80 milioni in più), in aggiunta ai cambiamenti climatici provocherà nuove instabilità e ondate migratorie, dopo gli 811.000 sbarchi avvenuti in Italia negli ultimi 10 anni.
L’Europa, che per ora si muove soprattutto a parole, gli interessi locali e delle multinazionali sulle enormi ricchezze africane e lo strangolamento del «dragone» cinese, che ha in pugno il debito del continente, sono ulteriori elementi di destabilizzazione.
«Le aspettative dell’indipendenza sono fallite» riflette con Panorama Alfredo Mantica, vicepresidente di Avsi, organizzazione no profit molto impegnata in Africa, che per un decennio è stato sottosegretario agli Esteri. «Trovo illuminante la sintesi che ha fatto il presidente ruandese Paul Kagame agli africani: “Sessant’anni dopo e con altri 80 anni di colonialismo prima, i problemi rimangono sempre sul tappeto. Smettiamola di dire che le colpe sono degli altri”». E dai conflitti, come quello che ha coinvolto proprio il Ruanda quasi 25 anni fa, bisogna partire per raccontare le tensioni che oggi percorrono il continente.
L’11 aprile scorso una colonna di ribelli che vuole conquistare il potere in Ciad è partita dai santuari nella Libia meridionale e desertica, attraversando il confine. L’obiettivo, «destabilizzare» le elezioni presidenziali. Il «maresciallo» Idriss Déby Itno, che governava il Paese sahariano da 30 anni, è stato ucciso in battaglia. L’alleato della Francia nella guerra al terrorismo è morto dopo essere stato incoronato presidente per la sesta volta. Al suo posto, è asceso al potere il figlio-delfino, Mahamat, capo dell’intelligence, che assieme ai militari ha sciolto il Parlamento.
L’Unione africana aveva annunciato, peccando di ottimismo, che il 2020 sarebbe stato l’anno del «silenzio delle armi». Si sperava di proclamare l’Africa libera dalle guerre, ma il traguardo è ancora lontano. I conflitti aperti sono appunto 21, fra quelli «a bassa intensità» e nuovi scontri. Lo scorso novembre il premio Nobel per la pace, ma ex colonnello, Abiy Ahmed, primo ministro dell’Etiopia, ha lanciato una campagna militare nel Tigray, regione ribelle al confine con l’Eritrea. L’ultima vampata di violenza è esplosa nel Darfur, in Sudan, a lungo sanguinoso teatro di guerra etnica. E nel Sud Sudan, la nazione africana più giovane che ha proclamato l’indipendenza nel 2011, il 26 aprile scorso è stato gambizzato il vescovo missionario italiano Christian Carlassare.
Dalla fine della Guerra fredda si registravano in Africa 25 colpi di Stato o tentativi di golpe ogni decennio. Proprio durante il genocidio in Ruanda del 1994 (almeno 800.000 morti in tre mesi) si sono spalancate le porte dell’inferno dell’odio etnico e politico. Gran parte delle vittime tutsi degli squadroni della morte hutu venivano finite a colpi di machete. Il sangue dei massacri si mescolava alle credenze magiche del Paese delle mille colline. Ai neonati veniva staccata la testa per riti nella foresta e il piccolo cadavere isolato dalla massa degli altri come monito.
La vittoria dei ribelli tutsi di Kagame e la fuga dei responsabili del genocidio assieme a parte della popolazione hutu nella vicina Repubblica democratica del Congo (RDC) ha innescato una miscela esplosiva di tensioni. Il sergente Mobutu Sese Seko, padrone della gigantesca nazione da dopo l’indipendenza alla sua morte nel 1997, era il simbolo della cleptocrazia africana, un po’ meno sanguinario di personaggi come Idi Amin Dada in Uganda e l’«imperatore» Jean-Bedel Bokassa nella confinante Repubblica Centrafricana. Sul sito del Quirinale campeggia ancora oggi la più alta decorazione dello Stato italiano, il Gran cordone, come quello di Tito, concessa nel 1973 a Mobutu sentinella degli Usa in Africa durante le guerre per procura con l’Unione sovietica.
Alla morte dell’ex sergente, la RDC è precipitata in due feroci conflitti: le «guerre mondiali africane» battezzate così per il coinvolgimento delle truppe di Uganda, Ruanda, Burundi, Angola, Zimbabwe e Namibia. Il bilancio finale, dal 1998, è stato di 5 milioni di morti. E la più grande missione Onu con 17.000 caschi blu (e la più costosa: 1 miliardo di dollari l’anno) è risultata fallimentare. Incapace di pacificare regioni come il Kivu, nell’est del Paese, crocevia di signori della guerra, traffici di ogni tipo e ricco di risorse, dove hanno trovato la morte lo scorso 22 febbraio l’ambasciatore italiano nella RDC, Luca Attanasio, il suo autista e un carabiniere di scorta. «È assurdo che uno Stato come l’ex-Zaire, miniera a cielo aperto di coltan, oro, diamanti e giacimenti di petrolio e uranio, abbia un reddito pro capite di 450 dollari all’anno nel Kivu, dove hanno ammazzato il nostro ambasciatore» sottolinea padre Giulio Albanese, storico esperto dell’Africa.
Dall’11 settembre 2001 anche nel continente è passata la prima linea della guerra al terrore. All’inizio in Somalia e nella fascia araba del Nordafrica, con le cellule di Al Qaida; poi Boko Haram, che significa «l’Occidente è peccato», si è espanso in Nigeria, colpendo i cristiani; alla fine lo Stato islamico ha fatto proseliti a chiazza di leopardo anche dall’equatore in giù. «L’Isis continua a credere nella missione globale del Califfato da affermare a livello mondiale. L’Africa, purtroppo, è terreno fertilissimo dal Sahel alla Nigeria, fino al Congo e al Mozambico per un movimento radicale come lo Stato islamico» osserva Marco Bertolini, generale dei paracadutisti in ausiliaria, veterano delle missioni dalla Somalia all’Afghanistan.
I video girati il 24 marzo scorso durante l’attacco dell’Isis a Palma, città di 75.000 abitanti (di cui 30.000 sono fuggiti) nel nord del Mozambico, vicina al confine tanzaniano, sono un pugno nello stomaco. I tagliagole neri, arrivati in nome della guerra santa, smembrano a colpi di machete i civili. Non basta la decapitazione, vengono troncate gambe e braccia. In un filmato una donna incinta è riversa a terra con il ventre squarciato da cui viene estratto il feto. Ulrich Kny, capo progetti per il Mozambico di Aiuto alla chiesa che soffre, racconta che «non possiamo condividere quelle immagini scioccanti perché feriscono la dignità umana con la loro brutalità. I terroristi sembrano intenzionati a causare il danno più elevato e a seminare il massimo terrore nella loro frenesia distruttiva. Ci chiediamo quanti altri morti dovranno esserci prima che il mondo faccia qualcosa per porre fine a tale violenza».
Dal 2017 le vittime sono tremila e gli sfollati 700.000, ora l’Isis mozambicano sta avanzando verso i centri urbani. La tattica delle bandiere nere è sempre la stessa fin dagli albori del Califfato in Siria e Iraq: predicatori jihadisti che vanno a preparare il terreno, rivolta armata, accordi con etnie o tribù locali che si sentono vessati dal governo centrale (anche se il nord-est del Mozambico è la provincia del presidente, Filipe Nyusi) e risorse energetiche come obiettivo dell’espansione. L’attacco a Palma ha costretto la compagnia petrolifera francese Total a sospendere i lavori del progetto multimiliardario per lo sfruttamento di gas naturale sulla penisola di Afungi, vicino alla città. Anche le italiane Saipem e Bonatti hanno dovuto evacuare il personale. Più a sud, a Pemba, l’Eni resiste con le piattaforme offshore. In Mozambico c’è un giacimento di gas naturale, secondo nel mondo solo al Qatar. E il progetto di sfruttamento vale 150 miliardi di euro.
L’errore strategico, che ha alimentato l’espansionismo jihadista diventando una spina nel fianco dell’Italia, è stato l’innamoramento occidentale e giornalistico per le primavere arabe del 2011. «Non c’è ombra di dubbio che abbiamo sbagliato a bombardare Gheddafi» sostiene Bertolini. «Con il colonnello avevamo un rapporto privilegiato e il suo potere era un argine al morbo jihadista e ai flussi migratori. Una realtà distrutta per volere dei francesi, che hanno le loro mire energetiche in Libia a discapito dell’Eni, con l’appoggio inglese e degli Stati Uniti dell’allora presidente Barack Obama. L’Italia era troppo debole per opporsi al disastro provocato in Libia».
Il paradosso è che 10 anni dopo la fine del colonnello a Tripoli è arrivato al potere, con gli applausi della comunità internazionale, un ex gheddafiano. Il nuovo capo del governo che dovrebbe traghettare il Paese fuori dal caos e dall’instabilità è Abdul Hamid Dbeibeh, ricco imprenditore affermatosi sotto l’ombrello del defunto regime. Seif al-Islam, il figlio più brillante di Gheddafi e delfino designato, lo aveva scelto nel gruppo ristretto che stava preparando la successione al padre prima della fallimentare rivolta popolare. Seif gli affidò la Libyan investment and development company, che si occupava dei maggiori progetti infrastrutturali nello Stato nordafricano.
Nell’esecutivo di Dbeibah ci sono altri post-gheddafiani. Il responsabile dell’Economia, Muhammad al Hawaji, era stato ministro con il colonnello. Il responsabile dell’Interno, Khaled Mazen, è un ex-ufficiale della polizia di Gheddafi. Un altro «ex» è Ajdid Maatuq Jadid, rappresentante del clan dei Warfalla, sempre fedelissimo al colonnello. Adesso ha il delicato incarico di ministro delle Migrazioni, con dossier che ci riguardano da vicino.
L’Italia, che non ha mai saputo schierarsi quando il gioco si faceva duro – come l’assedio di Tripoli da parte delle truppe del generale Khalifa Haftar – ha perso il suo ruolo privilegiato di fronte a potenze regionali ben più aggressive. «I turchi vanno a riempire i vuoti che lascia il nostro Paese dalla Libia alla Somalia. A Mogadiscio abbiamo una missione di addestramento in ambito europeo, ma non la presenza auspicata dai dignitari locali, che più volte mi hanno detto: “La Somalia grida Italia, Italia, ma voi non rispondete”» conclude Bertolini.
(Fine della prima puntata)