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La disfatta d’Afghanistan

Il disastroso ritiro americano e la riconquista del potere da parte dei talebani aprono scenari drammatici per tutto l’Occidente. Con un nuovo Stato islamico radicale, sostenuto da russi e cinesi, dalle coltivazioni di oppio e dal traffico di armi, aumenterà il rischio di attentati all’estero. Così come le ondate di profughi che cercheranno rifugio in Europa.


«L’esercito ha ricevuto ordini dall’alto di non combattere». Il lapidario messaggio via WhatsApp arriva la mattina presto del 15 agosto quando ancora non si immagina che i talebani possano entrare a Kabul senza sparare un colpo. Lo invia dalla capitale Mohammadi Aljad, capitano dei corpi speciali che combatte da mesi nell’inutile tentativo di arginare l’avanzata dei seguaci dell’Emirato islamico. Gli rispondo che «non è possibile», ma poche ore dopo le prime avanguardie talebane entrano a Kabul. Il capitano, che parla bene italiano, si è formato all’accademia militare di Modena nel corso «Coraggio». Dopo la disfatta ha dovuto nascondersi in un pozzo per sfuggire ai talebani che avevano messo una taglia sulla sua testa. «Cercano tutti gli ufficiali che si sono addestrati all’estero. Prima ti torturano per ottenere informazioni sui paesi della Nato dove siamo stati per anni» racconta Aljad «Poi ti uccidono». Qualche giorno dopo il «nostro» ufficiale è riuscito con grande difficoltà a raggiungere l’aeroporto per venire evacuato in Italia.

TALEBANI 2.0

In una guerra lampo di nove giorni, 75 mila talebani, quattro volte meno rispetto ai numeri che sulla carta aveva l’esercito afghano, hanno conquistato 34 capoluoghi provinciali in un Paese grande due volte l’Italia proclamando il secondo Emirato islamico a Kabul (il primo era durato dal 1996 al 2001). Una Caporetto, 20 anni dopo l’11 settembre, grazie al tradimento del presidente afghano Ashraf Ghani fuggito con la cassa, l’appoggio agli insorti dei pachistani e l’avallo sottobanco degli americani che volevano solo andarsene ma sono sprofondati in un nuovo Vietnam, un mese e mezzo dopo il ritiro dell’ultimo soldato italiano da Herat.

Ma chi sono i talebani di oggi? I combattenti più giovani portano sempre il turbante, ma amano le sneaker, le scarpe da ginnastica di moda in Occidente. Davanti alle telecamere si presentano con il volto buono di insorti islamici evoluti, che imporrano la loro versione della Sharia, la legge del Corano, ma non faranno male a nessuno. I filmati girati di nascosto con i telefonini a Kabul mostrano un’altra storia: file di afghani rastrellati, faccia al muro e picchiati con le mani legate alla schiena. Altre immagini durante l’avanzata hanno fatto vedere funzionari impiccati ai posti di confine conquistati o soldati falciati a raffiche di mitra dopo essersi arresi. A Jalalabd ci sono stati spari sulla folla che protestava sventolando la bandiera afghana. Oltre al taglio delle mani per i ladri e frustate alle donne per qualche screzio. I talebani, però, sanno anche essere magnanimi: «Sono in coda con altri soldati per ottenere la grazia firmata su un foglietto, che mi permetta di tornare a casa» raccontava un militare dopo la caduta di Kunduz, strategica città del nord.

Un intero corpo di armata si è arreso, come da altre parti, grazie ai talebani 2.0. «Nessuna provincia è caduta in combattimento, ma come risultato della guerra psicologica» ha ammesso il generale Abbas Tawakoli, comandate del 217° Corpo d’armata. Il sistema è semplice: i talebani filmano con i telefonini gli attacchi e poi le capitolazioni facendo girare i video sui social. Chi resiste senza appoggio areo e rifornimenti li vede e gli ufficiali ricevono su WhatsApp messaggi, che non lasciano alternative: «Arrenditi o muori». Non c’è mai troppo sangue come con i tagliagole dell’Isis, ma i brevi video sono abbastanza d’impatto, con spiegamento di colonne di blindati o arsenali sequestrati, da far pensare che le bandiere bianche con le scritte nere del Corano siano invincibili. Il resto è effetto domino.

Uno degli strateghi della «guerra» psicologica e della propaganda mediatica è Zabehullah Mujahed, il portavoce dei talebani, che il 17 agosto si è presentato al mondo nella prima conferenza stampa a Kabul. Quando gli hanno domandato cosa pensa della censura ha risposto: «Chiedetelo a Facebook».

Nel primo Emirato le foto erano proibite, ma adesso i talebani si mettono in posa facendosi intervistare dalle giornaliste. Due anni fa ho «conosciuto» telefonicamente il megafono dei talebani iniziando la conversazione con «salaam Aleikum», la pace sia con te. Zabehullah con qualche parola anche in inglese aveva concluso spiegando che «negli ultimi 40 anni abbiamo sacrificato milioni di afghani per la Jihad e la legge islamica. Non accetteremo mai le idee e la democrazia occidentali».

VECCHI E NUOVI CAPI

I vertici talebani sono un miscuglio di nuove e vecchie leve. Il primo pezzo grosso a essere rientrato il 17 agosto a Kandahar, la «capitale» spirituale talebana nel sud del Paese, è mullah Abdul Ghani Baradar. Da giovanissimo combattè contro i sovietici e nel 2001, dopo il crollo del primo Emirato sotto le bombe dei B-52 americani, fece fuggire dall’Afghanistan in motocicletta il leader guercio dei talebani, mullah Omar. Se Baradar, che significa «fratello», è il numero due, l’«Ameer-ul-momineen», il «comandante dei fedeli» alla guida dei talebani, Hibatullah Akhundzad, sui 60 anni, è anche lui della vecchia guardia. Poco combattente e figlio di un teologo, è stato indebolito dal Covid. Le giovani leve che scalpitano sono il misterioso figlio di mullah Omar, il trentenne Mohammed Yaqoob, laureato a Karachi a capo del comitato militare dallo scorso anno, che ha portato alla vittoria l’armata talebana.

Un altro «giovane» è Sirajuddin Haqqani, figlio di Jalaluddin, leggendario comandante della guerra santa contro i sovietici. Super ricercato dalla Nato, è a capo della rete terroristica Haqqani, che ha messo a segno gli attentati suicidi più devastanti in Afghanistan. Nella cupola talebana, fino al 15 agosto in esilio in Qatar, ci sono anche ex prigionieri di Guantanamo come Mullah Norullah Noori che ha passato 12 anni nel carcere americano a Cuba.

IL CUPO FUTURO DELLE DONNE

«A tutte le persone che ascoltano la mia voce ho paura. Con mio marito, che ha fatto l’interprete per i vostri soldati, non possiamo uscire e andare al lavoro. Non mi sento più libera. Per favore aiutateci. Io amo vivere, vi prego datemi il diritto di vivere» è il messaggio vocale ricevuto da Panorama di una donna di Herat dopo la conquista dei talebani. Un audio dell’emiro che ha fatto cadere la prima città, Zaranj, annuncia che le vedove «possono venire sposate dai mujaheddin», così come le giovani. Le donne, soprattutto fuori da Kabul, temono di finire schiave del sesso e devono indossare il burqa. S., coraggiosa attivista che ha lavorato con «le soldatesse italiane a Herat ai programmi per i diritti femminili» il 18 agosto si nascondeva a Kabul in attesa dell’evacuazione. «Sono vicini. Hanno la lista con il mio nome. Erano già andati a casa mia a Herat distruggendo porte e finestre» racconta. «Vi mando una foto che ho scattato di nascosto dei talebani armati in strada che iniziano le perquisizioni. Non sono cambiati. Restano buoni amici di al-Qaida».

NELLA RETE DEL TERRORE

I talebani non ripeteranno l’errore di ospitare un nuovo Osama bin Laden, ma ci sono ancora 400-600 terroristi dello sceicco del terrore, al loro fianco. Ben 21 gruppi terroristici che operano a cavallo fra Afghanisatn e Pakistan arruolano volontari stranieri a cominciare da 6 mila pachistani e alcune centinaia provenienti da Bangladesh, Cina, India e Myanmar. «Il 15 agosto, la caduta di Kabul, peggio di Saigon, rimarrà un evento simbolico che farà da volano alla Jihad transnazionale» sostiene l’ex generale Giorgio Battisti, veterano dell’Afghanistan. Non a caso le prime congratulazioni al nuovo Emirato talebano sono arrivate dai palestinesi di Hamas, «per la sconfitta dell’occupazione americana», dai terroristi somali di al-Shabaab e dalla costola mediatica di al-Qaida.

DROGA E GEOPOLITICA

I talebani hanno finanziato 20 anni di guerra con i dazi incassati dal passaggio di camion carichi di oppio diretti verso il Pakistan, dov’è raffinato in eroina per arrivare in Occidente. Il 90 per cento dell’eroina mondiale viene dall’Afghanistan. La Nato non ha mai fermato le coltivazioni e nel 2017 la produzione ha toccato il record di 9 mila tonnellate di oppio. I talebani si sono sempre dichiarati contrari alla droga e ora, grazie agli introiti come Stato e agli aiuti dall’estero, hanno promesso che «l’Afghanistan non sarà più il centro della coltivazione del papavero da oppio o del traffico di droga», come fecero nel primo Emirato. Si vedrà se agli annunci seguirannoi fatti.

La coalizione internazionale ha speso 88,32 miliardi di dollari per le forze di sicurezza afghane e la polizia, sciolte come neve al sole. I talebani hanno potenziato il loro arsenale conquistando le basi con tutti i mezzi e le armi intatte. Alcune foto dimostrano che stanno già mandano blindati anti-mine americani di ultima generazione in Pakistan per venderli o copiarne la tecnologia. Un traffico di armi mirato di materiale bellico altamente qualificato, in molti casi utilizzato poco e abbandonato dai governativi.

Sul piano geopolitico i talebani hanno sparigliato le carte del «Grande gioco» stringendo accordi con russi e cinesi, le uniche potenze ad avere mantenuto le ambasciate a Kabul. A Mosca il Lawrence d’Afghanistan russo è l’inviato speciale di Vladimir Putin. Non poteva che chiamarsi Kabulov e di nome Zamir Nabiyevich. Quando l’abbiamo incontrato raccontava che aveva iniziato da giovanissimo interprete di Leonid Breznev durante l’invasione dell’Afghanistan del 1979. Kabulov aveva già previsto ogni cosa: «Gli occidentali hanno già commesso tutti gli errori che avevamo compiuto noi, ma ne stanno facendo di nuovi». In luglio mullah Baradar si è fatto immortalare, come un capo di Stato in visita ufficiale, a fianco del ministro degli Esteri cinese Wang Yi. E nell’avanzata su Kabul è sempre rimasto in contatto con Pechino.

L’ULTIMA RESISTENZA

Non tutto l’Afghanistan è sotto controllo talebano. L’indomita valle del Panjshir, a nord di Kabul, è l’ultima ridotta della resistenza. Ahmad Massoud è il figlio del leggendario comandante che ha combattuto contro i sovietici e i talebani nella stessa valle. Nel Panjshir è arroccato con la sua milizia taijka, alcuni comandati militari e battaglioni dell’esercito che non hanno ceduto le armi. Al suo fianco il vice di Ghani, Amrullah Saleh, ex capo dei servizi segreti, che il 17 agosto si è autoproclamato presidente ad interim dell’Afghanistan.

Oltre alla vergogna della disfatta in stile Vietnam, soprattutto l’Europa si troverà di fronte nei prossimi mesi a un’ondata migratoria dall’Afghanistan come quella siriana che ha portato 850 mila rifugiati lungo la rotta balcanica. Nelle ultime settimane al confine di Van fra Turchia e Iran già arrivavano 1.000 afghani al giorno, cinque volte di più rispetto all’anno precedente. «Ogni regime che cambia porta speranze e dubbi. Questo, il quinto che vedo, non fa eccezione» dice a Panorama da Kabul Alberto Cairo, veterano della Croce rossa internazionale. «Può finalmente segnare la fine della guerra, ma garantirà le libertà che molta gente chiede? Solo il tempo risponderà». n

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