- Costruire veicoli green fa bene all’ambiente, ma permetterà alle aziende di lasciare a casa migliaia di operai. Nelle auto ecologiche, infatti, mancano moltissime parti che sono invece presenti nei motori a scoppio. Anche le aziende dell’indotto e della componentistica, per lo stesso motivo, sono a rischio.
- Gli studiosi lo chiamano «il cigno verde»: ovvero un evento ambientale straordinario – incendi, tempeste e inondazioni. Ma oltre a questo impatto ecologico devastante, a rischiare di più è l’industria ritenuta inquinante. La politica europea costringerà infatti il sistema bancario a penalizzarla.
L’elettrificazione del settore automotive è vista e raccontata come la più grande rivoluzione da quando il motore a scoppio soppiantò le carrozze. Sarà vero ma, per ora, i più assennati sostengono che potrebbe generare la più grande crisi industriale degli ultimi cent’anni. La politica spinge troppo in fretta verso l’ecologia, ma i costruttori non possono perdere la marginalità. Di conseguenza, il cerino resta nelle mani dell’anello debole della catena, le aziende dell’indotto. Una politica sana avrebbe prima facilitato la loro conversione tecnologica e soltanto dopo spalancato la strada alle politiche verdi.
Già tre anni fa il National Platform for the Future of Mobilty (Npm), ente consulente del governo tedesco, stimò che in Germania il comparto avrebbe rinunciato a 410.000 posti di lavoro entro il 2030; tecnici, impiegati e soprattutto operai che lavorano su parti delle auto che non sono più presenti nei veicoli elettrici. Lo sapeva Audi, che nei prossimi cinque anni taglierà 9.500 posti di lavoro; Bmw che ne sta lasciando a casa qualche migliaio e Daimler che preannunciò di licenziare 7.000 impiegati. I costruttori sono consci che spenderanno più di 400 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni per lo sviluppo di auto elettriche con tecnologia per la giuda autonoma, almeno stando allo studio della multinazionale di consulenza AlixPartners. Ma soprattutto devono riorganizzare le fabbriche, riqualificare i lavoratori, rivoluzionare le reti dei fornitori e ripensare l’intera idea di proprietà dell’automobile. La politica cerca spesso di incolpare della crisi le tensioni internazionali e la Brexit, ma sono fattori secondari. Vero è che le vendite di Ford in Cina erano crollate del 36% nei primi tre mesi del 2019 a causa dei dazi, ma l’anno scorso i cinesi hanno acquistato 24 milioni di auto, più di qualsiasi altra nazione. Gli americani sono al secondo posto con 17 milioni, mentre le vendite di auto in Europa stagnano e la crescita di nuovi guidatori non c’è: il numero di giovani neopatentati europei è in calo dalla fine degli anni ’80 e sempre più spesso, con lo spostamento delle residenze nelle aree urbane, la proprietà dell’auto è un lusso piuttosto che una necessità.
Il grande problema della conversione tecnologica è che costruire auto elettriche implica la riduzione, quando non la cessazione, di forniture fino a quel momento necessarie. Se Fiat Chrysler a Pratola Serra cerca di mantenere la produzione di motori diesel (-30% nel 2019), facendo costruire anche il motore del Ducato euro6D, gli stabilimenti piemontesi della Mahle chiuderanno ed è crisi per la Bosch di Bari, preceduta da quella di Cnh a Foggia. Quando si disse “basta diesel” si dimenticò che si trattava di prodotti fatti in fonderie specializzate, allestiti con centinaia componenti tecnologici, parti di filtrazione, lubrificazione e altro ancora. Ognuna delle quali prodotta da qualcuno che dovrà fare altro. Si stima che soltanto in Italia siano 250 aziende che stanno smettendo di dare lavoro a 245.000 addetti. Sarebbe bastato garantire a questi produttori un aiuto in termini di tempo e di detrazioni per addestrarsi a costruire nuovi componenti, invece la demonizzazione dei diesel (-18% nel 2018, -22% nel 2019), ha comportato il tentativo delle aziende investite dalla crisi di proteggere quanto guadagnato fino ad ora tirando i remi in barca, vendendo o chiudendo. Per l’Italia perdere l’esportazione di motori significa rinunciare a quasi 4 miliardi di euro l’anno, pari al 20% di tutta la componentistica del settore trasporti. La prima destinazione di queste parti era la Germania, ma ora questi prodotti non potranno certo essere sostituiti in fretta da quelli destinati ai mezzi elettrici e ibridi perché il ritardo italiano nella filiera della componentistica è gigantesco. Le case dal canto loro vogliono trasformare il problema in opportunità: fare auto elettriche comporta meno mano d’opera e consente un uso maggiore di robot. La politica ci vende l’idea che queste persone possano rapidamente imparare a costruire reti di distribuzione dell’energia, ma per farlo servirebbe almeno l’unità d’intenti europea, mentre a essere preoccupati nell’UE sono gli stessi che da Bruxelles tifavano ecologia a tutti i costi. Non basterebbe neppure riuscire a impiegare queste persone per costruire i 17 milioni di punti di ricarica elettrica necessari alla rete stradale dell’Unione, che oggi non arriva a due, con soltanto 110.000 colonnine attive in Italia. Le previsioni sono quindi tragiche: su tre milioni di addetti complessivi che l’automotive contava in Europa fino al 2015, l’automotive europeo potrebbe lasciarne a casa quasi due prima del 2025.
A rischio i comparti della meccanica e dell’energia
Per comprendere la diversità costruttiva delle auto a batterie basta contare le parti “in movimento” presenti su un’auto elettrica: meno di una trentina contro le circa 150 di una vettura tradizionale, con oltre la metà del totale dei pezzi che provengono da aziende esterne alla precedente filiera. In un mezzo elettrico ci sono parti elettroniche che hanno un valore di circa otto volte quello dei componenti divenuti inutili, ma convertire una catena di montaggio è molto più rapido che trasformare un’azienda meccanica in elettronica. Si comincia ora a capire che serve meno acciaio ma più alluminio, rame ed altri metalli pregiati, ma meno olio e meno gomma. Soprattutto, una volta venduta, l’auto elettrica richiede metà della manutenzione, senza contare la rivoluzione da attuare nella filiera dei distributori di carburanti e lubrificanti. Ecco spiegato perché Germania in testa, e Francia all’inseguimento, stanno cercando di ridurre il distacco con la Cina in fatto di produzione di batterie e di sistemi di gestione dell’energia, cosa che invece noi italiani non facciamo. Dunque salvo provvedimenti governativi shock ci vorranno almeno 15-20 anni prima che la quota di mercato delle vetture elettriche in Italia arrivi almeno al 30%, ovvero sia abbastanza consistente per favorire investimenti privati garantendo margini interessanti. Fatto che la nostra fiscalità certo non favorisce.
Nel frattempo sarebbe invece sensato facilitare l’uso del gas naturale per autotrazione, anche realizzando automobili ibride che ne prevedano l’uso combinato, ovvero ampliare le soluzioni energetiche disponibili, salvando così la fornitura di gran parte delle componenti meccaniche e il nostro know-how in fatto di energia pulita. Essere talebani dell’ecologia a noi italiani non conviene: non siamo come gli olandesi, che senza industria automotive hanno potuto spingere la mobilità elettrica creando posti di lavoro nelle infrastrutture, noi gli idrocarburi li produciamo e rischiamo di deprimere un’altro comparto. Da una parte dobbiamo quindi tenere un passo più lento nella conversione, più simile a quello degli Usa che a quello dei Paesi finnici ai quali troppe volte ci ispiriamo, mentre dall’altro dobbiamo ri-specializzarci in forniture che abbiano una prospettiva di applicazione, sapendo che la sostenibilità complessiva dei veicoli elettrici è tutt’altro che chiara.
Va sempre ricordato che i trasporti sono responsabili per il 23% delle emissioni di biossido di carbonio legate all’energia a livello globale, e che i veicoli elettrici hanno una catena di approvvigionamento onerosa: il cobalto, componente delle batterie agli ioni di litio, è una piaga per il lavoro minorile, il nichel è tossico, inoltre ci sono preoccupazioni ambientali e conflitti per lo sfruttamento del suolo legato all’estrazione in Africa, Tibet e Bolivia. Infine questi minerali sono disponibili in quantità limitata. Ciò rende impossibile elettrificare tutto il trasporto mondiale con l’attuale tecnologia e non esiste ancora un modo ecologicamente sicuro per riciclare le batterie. Abbiamo una certezza: se le auto a benzina sono durate quasi 200 anni, quelle elettriche non vedranno la fine di questo secolo perché si vedranno superate da nuove tecnologie come le celle a combustibile e da sistemi come le batterie strutturali, con la carrozzeria dell’auto che diventa accumulatore di energia.
C’è una minaccia green per l’economia

Gli studiosi lo chiamano «il cigno verde»: ovvero un evento ambientale straordinario – incendi, tempeste e inondazioni. Ma oltre a questo impatto ecologico devastante, a rischiare di più è l’industria ritenuta inquinante. La politica europea costringerà infatti il sistema bancario a penalizzarla.
di Guido Fontanelli
Cari risparmiatori, il «cigno nero» del coronavirus vi ha spaventato? Beh, la paura che vi ha fatto prendere è niente rispetto alla minaccia che arriva da un cigno dalle piume di un altro colore, apparentemente meno funereo: il verde. È l’effetto che il cambiamento climatico avrà sulla finanza mondiale. E sarà fortemente negativo per alcune industrie e per intere economie se non si prenderanno le adeguate contromisure.
Da tempo il termine «cigno verde» circola nella letteratura economica. È simile al concetto di «cigno nero», l’evento a bassa probabilità e ad alto impatto che sconvolge i mercati finanziari e la vita delle persone, reso celebre dal libro del filosofo libanese Nassim Nicholas Taleb pubblicato nel 2007. La crisi finanziaria dell’Asia nel 1997, l’attentato dell’11 settembre 2001, il crollo dei mutui subprime e il fallimento della Lehman nel 2008, il referendum pro-Brexit del 2016, l’attuale epidemia di coronavirus, sono esempi di cigni neri comparsi di colpo sulla scena mondiale. Hanno provocato panico, ondate di vendite sui mercati finanziari e nuove guerre, come nel caso degli attentati organizzati da Osama Bin Laden.
Il cigno verde invece è più prevedibile, anzi, è costantemente davanti ai nostri occhi: la temperatura del pianeta continua a salire, le inondazioni sono sempre più frequenti, le tempeste e gli incendi assumono dimensioni catastrofiche. Il problema numero uno è che ognuno di questi eventi viene affrontato come un disastro naturale isolato, e poi rimosso dall’interesse mediatico fino alla prossima emergenza. Il problema numero due è che il cambiamento climatico alla fine ci presenterà il conto e nessuno sa a quanto ammonterà.
Per la verità, qualcuno sta provando a calcolarlo. Nel 2006 l’economista britannico Nicholas Stern pubblicò la Stern Review on the economics of climate change, un’analisi di 700 pagine che ha fissato il costo della riduzione delle emissioni di gas serra, responsabili dell’aumento delle temperature, all’1 per cento del Pil se avessimo iniziato ad agire allora, mentre il costo sarebbe pari al 20 per cento del Pil se lasciassimo aumentare le emissioni senza alcun intervento. Più di recente, nel 2015, il Financial stability board, l’organismo che promuove e monitora la stabilità del sistema finanziario mondiale, ha creato la Task force sulle informazioni finanziarie relative al clima. Il suo compito è elaborare una serie di raccomandazioni su come misurare i rischi legati al cambiamento climatico.
Ma il documento che più ha colpito gli addetti ai lavori è uscito lo scorso gennaio: lo ha pubblicato la Banca dei regolamenti internazionali (Bri), è lungo 115 pagine e si intitola The Green Swan: central banking and financial stability in the age of climate change, cioè «Il cigno verde: le banche centrali e la stabilità finanziaria nell’era del cambiamento climatico». Il rapporto fornisce una dettagliata descrizione sia dei rischi fisici (disastri indotti dal clima o la diffusione di malattie) sia del rischio di transizione (fallimenti di massa di aziende che non si sono adattate), così come dei modi in cui le banche hanno tradizionalmente valutato entrambi. Non è una lettura per deboli di cuore: «Le catastrofi climatiche sono ancora più gravi della maggior parte delle crisi finanziarie sistemiche» scrivono gli autori. «Potrebbero rappresentare una minaccia esistenziale per l’umanità, come sempre più enfatizzato dagli scienziati del clima». «Gli eventi del cigno verde» aggiungono «non possono essere catturati dalla tradizionale gestione del rischio… Le banche centrali potrebbero essere costrette ad acquistare su grande scala asset svalutati per sostenere il sistema finanziario e non solo».
Se tutto quello che avete letto finora vi sembra molto allarmistico e poco concreto, sentite che cosa dice Claudio Scardovi, managing director della società di consulenza Alix Partners, docente alla Sda Bocconi e all’Imperial College di Londra e autore di 20 libri (l’ultimo si intitola Real estate and wealth).
Scardovi sostiene che la lotta al cambiamento climatico non investe solo le aziende coinvolte nella produzione di beni o sostanze considerati inquinanti, come il petrolio, il carbone o i motori diesel, ma colpirà in pieno il cuore stesso dell’economia: il sistema bancario. «La Banca centrale europea e le banche centrali nazionali» dice il consulente «stanno chiedendo agli istituti di credito di adottare una politica che favorisca il cambiamento verso un’economia più sostenibile. Il che, in concreto, significa indirizzare il credito verso le aziende che inquinano meno e ridurlo, rendendolo più caro, per chi inquina di più». Facile a dirsi, un po’ meno a farsi. Intanto chi decide se un’impresa è più green di un’altra? Esistono delle società di rating che assegnano i voti alle aziende più virtuose, ma i loro criteri sono poco affidabili.
E così le banche potrebbero mettere in difficoltà gruppi sani che stanno cercando una transizione verso un modello più sostenibile, e invece offrire credito a buon mercato per attività più rischiose: è già capitato che grandi banche abbiano perso milioni sostenendo programmi nell’eolico che non si sono ripagati.
C’è poi, ricorda Scardovi, il rischio fisico: il 70 per cento circa dei crediti delle banche è garantito da immobili. «Se ci sono immobili in zone soggette a eventi atmosferici estremi, il loro valore scende mentre aumentano i costi. Anche in città come Milano molti palazzi non rispettano le nuove norme ambientali e andrebbero adeguati». Al rischio fisico si aggiunge quello di transizione: per esempio, un albergo in una località di montagna perde valore se la neve non arriva più. Tutto questo avrà un forte impatto sul sistema creditizio, anche se è difficile quantificarlo.
Al momento l’unica banca centrale che si è mossa per valutare la rischiosità del cambiamento climatico sulle aziende di credito è quella inglese: ha avviato uno stress test sulle banche britanniche ipotizzando vari aumenti delle temperature globali, da uno a quattro gradi. E i banchieri si stanno arrabattando per dare una risposta e scoprire quanto costa incontrare un cigno verde.