- Risorsa strategica/1: La crisi senza precedenti dei Paesi Opec
- Risorsa strategica/2: Perché il prezzo dell’oro nero è sempre più basso
Paesi come Kuwait, Oman, Bahrein, Iran, persino Arabia Saudita sono alle prese con una crisi senza precedenti: mancanza di liquidità, debito pubblico, conti fuori controllo, rischio di default. I motivi? Calano le entrate derivanti dal greggio, crolla il turismo e aumenta l’incertezza dovuta alla pandemia.
«Signori, i soldi sono finiti». Questo, in sintesi, ciò che Barak Al-Sheetan, ministro delle Finanze del Kuwait, ha comunicato lo scorso 19 agosto al parlamento del suo – apparentemente ricco – Paese. Al Sheetan ha anche sottolineato come l’esecutivo kuwaitiano non possa continuare a pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici oltre ottobre, per mancanza di liquidità. Nelle casse dello Stato, infatti, a quanto pare sono rimasti «solo» 2 miliardi di dinari (circa 5,5 miliardi di euro), del tutto insufficienti a coprire le spese.
Per tenere i conti in regola, il ministro nei mesi scorsi ha attinto a 1,7 miliardi di riserve (circa 4,68 miliardi di euro), ormai esaurite. Come sia stato possibile, è presto detto: le statistiche indicano che il 79% dei kuwaitiani è impiegato nel settore pubblico. Dove la spesa è cresciuta a dimisura e senza controllo per decenni, nell’errata convinzione che il settore petrolifero non potesse conoscere crisi. Poi però è arrivato il coronavirus e così il debito pubblico ha superato quota 66 miliardi di dollari, che oggi incidono inevitabilmente sulla tenuta dei conti dell’emirato.
Ma il Kuwait non è il solo Paese produtture di idrocarburi a navigare in cattive acque: sebbene siano immotivate le stime allarmistiche di chi preconizza la crisi o addirittura la fine prematura del mercato petrolifero, del tutto reale è invece la crisi sistemica che attanaglia in particolare le petro-monarchie del Golfo Persico, un’area dove i guadagni totali derivanti dall’oro nero sono valsi circa 300 miliardi di dollari nel 2020, a fronte di un crollo dei proventi per 575 miliardi nel 2019.
I casi da tenere sotto controllo sono numerosi: l’Oman, per esempio, per evitare il default deve sperare che il prezzo dell’estrazione del petrolio torni a circa 87 dollari al barile, quando invece attualmente si aggira intorno ai 45 dollari (dati dei primi di settembre 2020). Il governo di Muscat per il momento è riuscito a ottenere un prestito da un gruppo internazionale di banche per circa 2 miliardi di dollari, che dovrebbe essere rimborsato in un solo anno grazie all’emissione di obbligazioni per mitigare gli effetti della recessione economica e del debito di oltre 10 miliardi di dollari.
Non va meglio nel piccolo Bahrein, che dal petrolio oggi ricava l’85 per cento delle entrate, secondo i dati diffusi dal ministero delle Finanze di Manama. Il bilancio nazionale mostra che le entrate petrolifere della prima metà del 2020 sono scese a 2,4 miliardi di dollari, segnando un calo di quasi il 30% rispetto allo scorso anno, quando già i proventi degli idrocarburi erano in flessione. Il deficit di bilancio è così salito a 2,1 miliardi di dollari, con un aumento del 98% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Secondo l’agenzia di rating Moody’s, in questo modo il debito pubblico ha sfondato quota 100% del Pil nazionale.
In mezzo al buio c’è qualche raggio di sole, almeno secondo il Gulf cooperation council (Gcc): il Bahrein resta infatti il primo Paese al mondo nelle classifiche della cosiddetta «attrattiva finanziaria globale», dove i Paesi del Golfo occupano ancora oggi posizioni di tutto riguardo: con Riad che mantiene il quarto posto, Abu Dhabi il settimo e Dubai il dodicesimo. A dire il vero, l’Arabia Saudita si era mossa per tempo per evitare una futura crisi. Il principe ereditario Mohammed Bin Salman nel 2016 aveva varato un monumentale progetto – denominato Vision 2030 – che puntava a diversificare l’economia del regno e ad affrancarla entro quella data dalla dipendenza da petrolio.
Questo percorso obbligato, tuttavia, ha causato una serie di choc per l’economia nazionale, dovuti a tre fattori: l’indebitamento mostruoso per terminare il progetto entro i tempi previsti; il crollo planetario dei prezzi dell’oro nero; la pandemia, che ancora adesso non accenna a esaurirsi e, anzi, aumenta l’incertezza tanto nel settore dei trasporti quanto in quello finanziario. L’Arabia Saudita attualmente necessiterebbe che il prezzo del barile risalisse per i mesi a venire intorno ai 78 dollari, ma al momento non vi sono segnali che indichino un simile scenario.
Riad, inoltre, già oggi sa che uno degli obiettivi centrali di Vision 2030 è irrealizzabile: il progetto prevedeva infatti un’immissione di liquidità nei prossimi dieci anni, derivanti da quei 100 milioni di visitatori che avrebbero dovuto giungere nella Penisola arabica entro la fine del decennio. Al contrario, oggi il ministero del Turismo stima un calo del settore pari almeno al 40% (ma c’è chi prevede addirittura un calo del 70%), con 28 miliardi di dollari già volatilizzati a metà 2020.
Per ovviare a tali mancati introiti, Riad dovrà continuare a ricorrere alle riserve nazionali – attualmente pari a circa 444 miliardi di dollari – che possono coprire le spese di bilancio per i prossimi due anni; dopo, però, si dovranno trovare soluzioni alternative. La compagnia petrolifera nazionale, Aramco, per dire, è già stata collocata in Borsa. Nonostante un incasso record da 29,4 miliardi di dollari, non basterà. A pesare enormente sulle casse dei sauditi sono anche le spese pazze del principe ereditario (vedi l’acquisto del Salvator Mundi di Leonardo Da Vinci per 450 milioni di dollari o quello del megayacht «Serene» per altri 500). Soprattutto, però, la folle guerra nello Yemen, scatenata dallo stesso Bin Salman cinque anni or sono.
Quel conflitto, progettato per arginare l’influenza sciita nel Golfo persico, non soltanto ha già provocato migliaia di morti tra la popolazione civile, ma ha anche prosciugato le casse dello Stato, richiedendo l’acquisto di ulteriori 100 miliardi di dollari in armamenti dagli Usa. Tutto ciò, nonostante la certezza che nessuna delle parti in guerra potrà prevalere, data la scarsità delle forze in campo.
Lo stesso discorso vale per l’Iran, dove gli ayatollah continuano a foraggiare i ribelli yemeniti nella convinzione di poter danneggiare o persino far crollare l’arcinemico saudita. Tra le spese di guerra – non solo nello Yemen ma anche in Siria – e le sanzioni statunitensi, tra il crollo del prezzo del petrolio e la pandemia da coronavirus, Teheran quest’anno subirà una contrazione del Pil nazionale che, secondo il Financial Times, segnerà un – 9% secondo le stime più ottimistiche. Senza contare il rischio di rivolte sociali, che resta altissimo in tutta la regione mediorientale.
Secondo Lorenzo Marinone, analista del Ce.Si., Centro studi internazionale di Roma, «la monodipendenza da idrocarburi e derivati significa che le strutture economiche di questi Paesi sono molto deboli, perché completamente schiacciate su un unico settore. Di conseguenza, sia la struttura istituzionale sia quella imprenditoriale risentiranno a lungo di gap incolmabili: i tassi di iniziativa privata e la mentalità imprenditoriale delle classi lavoratrici, infatti, non risultano in alcun modo competitive con il resto del mondo. Senza contare l’assenza di imposte come l’Iva e di altre tasse statali. E la difficoltà a ottenere la cittadinanza per chi intende investire in questi Paesi».
Il paradosso dell’oro nero

Provate a cercare su Google le parole «fine del petrolio»: otterrete 822 mila risultati. L’idea che mondo si stia liberando dalla dipendenza del greggio è ormai entrata nella nostra cultura. «L’epoca dell’oro nero è agli sgoccioli» prevedono frotte di esperti, mentre le case automobilistiche pubblicizzano in tv e sui giornali nuove, scintillanti auto elettriche.
Un’illusione che la crisi economica provocata dalla pandemia di Covid-19 ha reso ancora più solida: quest’anno la domanda di petrolio scenderà di 8-10 milioni di barili al giorno mentre il prezzo del greggio Brent, punto di riferimento per le quotazioni in Europa, viaggia intorno ai 45 dollari al barile dopo essere crollato sotto i 20 in aprile. Nel 2019 un barile costava 64 dollari. E nel 2014 ne valeva addirittura 100.
È facile concludere che una merce il cui prezzo è in continuo calo è una merce meno richiesta. Ma non è così. E il sogno di un pianeta che la smette di succhiare petrolio dalle sue viscere è, appunto, un’illusione. Trent’anni fa, nel 1990, la domanda mondiale di petrolio ammontava a 68 milioni di barili al giorno. Nel 2000 era cresciuta a 77 milioni. Dieci anni dopo è salita a quota 90.
E nel 2019, nonostante gli accordi di Parigi sul clima e il movimento globale della giovane Greta Thunberg a favore della riduzione delle emissioni di CO2, il mondo ha raggiunto un nuovo record di consumi, sfondando per la prima volta nella storia di 100 milioni di barili di petrolio al giorno: per l’esattezza, 100,9 milioni nel quarto trimestre dello scorso anno, alla vigilia della pandemia.
Però, potrebbero sostenere gli ottimisti, ora che la crisi del Covid-19 ha sconvolto l’economia globale magari il nostro stile di consumi cambierà: ci sposteremo di meno o useremo più mezzi elettrici. Forse sarà così nei Paesi più avanzati, ma a livello planetario le previsioni dell’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) e di Nomisma Energia non avvalorano questo scenario: nel 2021 la domanda di greggio dovrebbe oscillare tra i 97 e i 100,3 milioni di barili al giorno e nel 2022 dovrebbe conquistare la nuova, inviolata vetta di 101 milioni di barili. Insomma, il mondo avrà sempre più sete di petrolio.
Allora, perché siamo tutti convinti che l’era del petrolio stia per finire? Perché osserviamo quello che sta intorno a noi e non abbiamo una visione globale. Viviamo in Europa, il continente che sta facendo più di tutti per ridurre le emissioni di CO²: secondo i dati dell’Agenzia internazionale dell’energia, l’Europa consuma appena 13 milioni di barili al giorno e ogni anno diminuisce la sua domanda. Anche il Nord America, con i suoi 23 milioni di barili, ha ormai imboccato una china discendente.
Peccato che gran parte della domanda di petrolio arrivi oggi dall’Asia, con 32 milioni di barili al giorno. Un valore destinato a crescere, spinto prima di tutto dall’aumento della popolazione (da qui al 2040 gli abitanti sulla Terra saranno 1,7 miliardi in più, quasi tutti nati in Asia e Africa) e dallo sviluppo economico di India, Vietnam, Indonesia e, naturalmente, Cina.
In attesa dell’elettrificazione dei trasporti, queste popolazioni useranno ancora per un bel po’ quel magico liquido ad altissimo contenuto energetico che in pochi minuti e a poco prezzo riempie i serbatoi delle loro motociclette e delle loro automobili. Ma se la domanda di petrolio continuerà a salire, perché il prezzo non si avvicina neppure lontanamente ai 100 dollari di sei anni fa? Per il 2021 le previsioni indicano infatti una quotazione di 53 dollari al barile e nel 2022 di 60 dollari.
La risposta ha a che fare con due luoghi molto lontani, l’Iran e il Texas, come chiarisce Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia e uno dei maggiori esperti del settore in Italia: «La caduta della quotazione del greggio dopo il 2014 fu provocata dalla decisione dell’Arabia Saudita di inondare il mercato, con l’obiettivo di danneggiare i produttori americani, dopo l’avvicinamento tra Stati Uniti e il nemico Iran. Nel gennaio del 2016 il prezzo del greggio scese addirittura a 27 dollari al barile. Ovviamente sono livelli insostenibili per i Paesi produttori e in seguito l’Opec ha ridotto la produzione: anche gli accordi tra Arabia Saudita e Russia per far risalire i prezzi hanno funzionato. Ma solo fino a un certo punto, perché il petrolio degli Stati Uniti, diventati il maggior produttore del mondo, svolge un ruolo di calmieratore del mercato».
In effetti i produttori del North Dakota e del Texas che estraggono greggio con la controversa tecnica del «fracking», frantumando strati sotterranei di roccia, hanno dimostrato un’incredibile resistenza ai crolli dei prezzi. Nonostante le decine di fallimenti, continuano a produrre. E riaprono i rubinetti appena le quotazioni risalgono.
Naturalmente un petrolio venduto a 50-60 dollari al barile (aggiunto al calo di domanda per il Covid-19) crea non pochi problemi ai Paesi produttori, che devono ridimensionare i loro grandiosi progetti di sviluppo (in Medio Oriente) o vedono riapparire lo spettro della povertà (Venezuela). E anche le compagnie petrolifere sono in difficoltà: l’Eni ha chiuso il primo semestre dell’anno con una perdita di 7,3 miliardi, Total è finita in rosso per 8,4 miliardi di dollari, Shell addirittura di 18,1 miliardi di dollari, un record. E mentre le major del petrolio diversificano nel gas e nelle energie alternative per liberarsi progressivamente dalla morsa del greggio, tagliano profondamente gli investimenti nella ricerca di nuovi giacimenti.
Ora siamo a un livello di circa 300 miliardi di dollari contro il massimo di quasi 700 miliardi toccato nel 2014. Uno scenario preoccupante, come sottolinea l’Agenzia internazionale dell’energia: «Gli investimenti globali nel settore del petrolio e del gas dovrebbero diminuire di quasi un terzo nel 2020. Per i mercati petroliferi, se gli investimenti si mantenessero ai livelli del 2020, ciò ridurrebbe il livello di offerta precedentemente previsto per il 2025 di quasi 9 milioni di barili al giorno».
Cosa significa tutto questo? «Che probabilmente avremo una carenza di offerta nei prossimi anni, e di conseguenza un aumento dei prezzi» risponde Tabarelli. Un film già visto, che potrebbe riportare le quotazioni in alto come è già avvenuto negli anni passati. Chissà, magari di nuovo vicino ai 100 dollari al barile: con il petrolio mai dire mai.
Guido Fontanelli
