Con le quotazioni del metano alle stelle, il combustibile fossile è diventata la risorsa più richiesta in Europa e in Asia, particolarmente nella voracissima Cina. La Russia, grande produttore, fa il proprio gioco a spese degli utilizzatori di tutto il mondo. L’effetto finale? Rallentamenti nella ripresa e crescita delle emissioni di CO2.
Contrordine compagni. Vi avevamo detto che del carbone brutto e puzzolente non ne avevamo più bisogno grazie alle nostre fonti rinnovabili e al gas, ma ci eravamo sbagliati. Ora ne vogliamo tanto, tantissimo: siamo disposti a comprarlo a qualsiasi prezzo. Peccato che di carbone ce ne sia poco e così i produttori europei di elettricità devono pagarlo, in particolare alla Russia, a cifre iperboliche: la scorsa settimana un carico è stato acquistato a 233 dollari a tonnellata, quando nella prima metà del 2020 i prezzi languivano sotto i 50 dollari.
Un boom che investe la fonte energetica più inquinante. Ed è un po’ imbarazzante che questa frenetica ricerca ad alto tasso di CO2 avvenga dopo i bei discorsi contro le fonti fossili ascoltati alle giornate milanesi dello Youth4Climate o mentre fervono i preparativi per la Cop26 delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, programmata a Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre. Ma il destino beffardo ha voluto che proprio nella seconda metà del 2021 si scatenasse un’incredibile tempesta sui mercati energetici.
Tutto parte dal gas naturale, che serve per produrre energia elettrica insieme alle fonti rinnovabili, al nucleare e al sempre meno amato carbone. La ripresa delle economie di tutto il mondo ha fatto crescere la domanda di metano ma chi lo produce fa fatica a soddisfare le richieste, anche perché la lotta contro le fonti fossili ha rallentato gli investimenti in nuovi giacimenti.
A soffrire di più per questa situazione è l’Europa. Quasi la metà delle importazioni di gas naturale nell’Unione proviene dalla Russia, ma a fronte del forte aumento della domanda, Mosca non ha accresciuto le sue esportazioni verso l’Europa preferendo servire i Paesi dell’Asia sia per ragioni economiche sia strategiche.
Nel frattempo il nuovo gasdotto North Stream 2, che porterà il gas da San Pietroburgo direttamente in Germania, è ancora in attesa di una serie di autorizzazioni. Aggiungete poi che l’eolico del Mare del Nord ha prodotto meno a causa della mancanza di vento mentre la Scandinavia è a corto di 26-30 terawattora di capacità idroelettrica, con livelli d’acqua significativamente al di sotto del solito, e potrebbe dover importare energia dall’Europa nel primo trimestre del prossimo anno. Risultato: domanda e quotazioni del metano alle stelle.
Di conseguenza gli europei si sono orientati sul carbone, già utilizzato in abbondanza dalla Germania, scontrandosi però con altre amare verità. La produzione del combustibile nero, rallentata durante il 2020, fatica a stare dietro alle richieste. E anche in questo caso, come con il gas, le rotte di approvvigionamento dalla Russia, il terzo più grande esportatore di carbone del mondo, sono state quasi interamente reindirizzate in Asia.
C’è carenza di carbone in Cina e ci sono problemi di approvvigionamento in Colombia, Australia, Sudafrica e Indonesia. In seguito all’alleanza tra Stati Uniti, Regno Unito e Australia, la Cina ha deciso di punire quest’ultima (il secondo più grande esportatore di carbone del mondo) interrompendo gli acquisti e rivolgendosi altrove, esercitando così ulteriori pressioni sul mercato. Inoltre le restrizioni ambientali limitano la produzione delle miniere più inquinanti. Commenta un operatore del settore: «Il mercato globale del carbone si trova in una situazione che si verifica una volta ogni 10 anni, forse addirittura una volta nella vita. Una serie di fattori si sono combinati per spingere i prezzi al loro massimo almeno dal 2008».
In questo quadro la Cina svolge dunque un ruolo fondamentale. Nel settembre 2020 il presidente Xi Jinping ha annunciato che la Repubblica Popolare «punterà ad avere il picco delle emissioni di CO2 prima del 2030 e a raggiungere la neutralità del carbonio prima del 2060».
Il ritmo della riduzione delle emissioni della Cina sarà cruciale per limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi centigradi. Il gigante asiatico, infatti, è dal 2009 il maggiore consumatore di energia del mondo mentre la sua dipendenza dal carbone l’ha resa il più grande produttore di CO2 del pianeta, responsabile di circa un terzo delle emissioni globali.
La Cina copre da sola circa la metà della produzione mondiale di carbone: la sua produzione interna è quasi triplicata dal 2001, mentre negli Stati Uniti e in Europa si è dimezzata. Ma non basta: i consumi cinesi di carbone sono talmente elevati da superare la capacità di produzione interna e il Paese è diventato sempre più dipendente dalle importazioni, che ora costituiscono circa l’8% del suo consumo di questa fonte energetica.
Così, nonostante i piani del Paese di diventare neutrale nelle emissioni di CO2 entro il 2060, il carbone copre oltre il 60% della sua produzione di energia: la Cina ha attualmente 1.080 gigawatt di capacità installata in centrali a carbone e quasi 250 gigawatt in fase di sviluppo. Anche se Xi Jinping si è impegnato davanti alle Nazioni Unite a non costruire più centrali a carbone fuori dal proprio territorio, altre continuano a essere costruite nel Paese per soddisfare la domanda di energia a prezzi bassi.
Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, «tutti i combustibili fossili contribuiranno ad accrescere le emissioni di CO2 in Cina nel 2021, ma il carbone dovrebbe essere il principale contributore, rappresentando il 60 per cento dell’aumento rispetto al 2020, principalmente a causa di un suo maggiore utilizzo nel settore energetico».
Insomma, quello che presenta Pechino è un pessimo scenario per la riduzione dell’anidride carbonica e i gas serra. Anche se il governo cinese sta compiendo sforzi notevoli verso un modello più sostenibile, con giganteschi investimenti nelle rinnovabili, nella produzione di batterie e di auto elettriche, e imponendo limiti ai consumi di energia alle sue province, Pechino resta prigioniero del proprio successo economico.
Basti pensare che con la ripresa dell’economia mondiale il Paese sta lottando contro una carenza di elettricità, e milioni di case e di imprese sono state vittime di blackout. Le imprese ad alta intensità energetica come la siderurgia, l’alluminio, il cemento sono tra le più colpite dalle interruzioni. Le aziende nelle principali aree industriali sono state invitate a ridurre l’uso di energia durante i periodi di picco della domanda o a limitare il numero di giorni in cui operano. Goldman Sachs ha stimato che fino al 44% dell’attività industriale del Paese è stata colpita dalla mancanza di energia. E ora gli analisti della banca d’affari americana si aspettano che la seconda più grande economia del mondo rallenti la sua corsa al 7,8% quest’anno, invece dell’8,2% previsto in precedenza.
Per uscire da questa crisi, il pianificatore economico cinese, la National development and reform commission, ha messo in cantiere una serie di misure, tra cui una stretta collaborazione con le miniere per aumentare la produzione, assicurando forniture complete di carbone e gestendo il razionamento dell’elettricità. Mentre il China electricity council, che rappresenta le compagnie elettriche, ha dichiarato che le centrali a carbone stanno «espandendo i loro canali di approvvigionamento a qualsiasi costo» per garantire il riscaldamento invernale e le forniture di elettricità. Probabilmente nei prossimi mesi l’emergenza finirà e il carbone tornerà a essere una delle fonti più economiche e bistrattate. Ma intanto la Cina dimostra come sia difficile svilupparsi ed essere, a un tempo, verde. Una lezione anche per l’Europa.
