C’è il caso eclatante della Riviera Romagnola. Ma si moltiplicano gli hotel in vendita da Venezia a Roma, da Milano a Firenze. Il Covid ha accelerato un processo già in atto, perché molte strutture hanno bisogno di essere rinnovate. Mancano però i soldi. E così diventano un facile obiettivo di speculazione.
Nei bar fronte mare non si parla d’altro. Di quell’anziano proprietario pieno di debiti, di quella struttura che andrebbe rinnovata ma costa troppo, dei figli che non ne vogliono sapere di prendere in mano la gestione e dei turisti sempre più esigenti. Vendesi, è la parola che corre di bocca in bocca sul litorale romagnolo. Rimini, anche se riesce ancora a incantare registi e scrittori per l’evocazione felliniana, ha perso gran parte del suo splendore.
Quella costellazione di alberghi celebri nel mondo come emblema del divertimento estivo è stata colpita dalla crisi del Covid. Un colpo forse più feroce di quello che si è abbattuto sulle abitazioni. Mentre il mercato residenziale viene da anni di boom, con prezzi saliti alle stelle, gli alberghi da tempo vivono in difficoltà. «La pandemia ha accelerato un processo già in atto, ha dato il colpo di grazia» spiega Patrizia Rinaldis, presidente della Federalberghi di Rimini. Sulla Riviera Romagnola sono oltre 350 le strutture in vendita, come scrive il portale Trovacasa, con prezzi che oscillano dai 150 mila euro per un tre stelle con una trentina di camere ai 7 milioni di un hotel di maggiori dimensioni fronte mare. Il grosso delle dismissioni, circa 280, si trova a Rimini; a Riccione, secondo comune per estensione, se ne contano 80, a Bellaria 16 e a Cesenatico 33.
Poche strutture espongono il cartello. Prevale il pudore più che la riservatezza. Per i proprietari significa abbandonare un’attività tramandata da generazioni, vuol dire la fine di un’epoca e arrendersi fa male. Le compravendite si fanno sul web e spesso recano solo il nome dell’agenzia immobiliare incaricata. La Federalberghi di Riccione dice che qualche annuncio con richieste alte viene pubblicato senza che ci sia la reale intenzione di vendere ma per sondare il terreno. Si vuole vedere la reazione del mercato.
Rinaldis sostiene che quelle 350 strutture in vendita sulle piattaforme online sono la punta di un iceberg. «Sulla Riviera Romagnola molti alberghi sono chiusi da anni perché affrontare una ristrutturazione è troppo oneroso, altri vanno avanti a fatica tra debiti da saldare, clientela sempre più esigente e difficoltà legate al cambio generazionale. Queste problematiche, con la crisi pandemica, sono esplose. La lunga chiusura ha fatto saltare i bilanci. Qui gran parte delle gestioni sono familiari, legate al vecchio modo di fare ospitalità mentre oggi si richiedono competenze informatiche e capacità nell’affrontare i nuovi obblighi normativi. Il Covid ha accelerato la modernizzazione. Le prenotazioni in larga parte si fanno online e last minute. La clientela chiede di più. Non si accontenta della pensioncina con la proprietaria in cucina a fare la pasta, vuole servizi diversificati, maggiori spazi, stanze ampie. Tante strutture non hanno il parcheggio. Se queste vendite portano a una riqualificazione del patrimonio alberghiero allora ben vengano». E sottolinea che «il 70 per cento del Pil di quest’area è rappresentato dal turismo. Solo Rimini conta circa 1.300 alberghi, la provincia 2.200».
Bocche cucite sugli acquirenti. Ma le voci circolano. Rinaldis dice che si fanno avanti russi, albanesi, cinesi e qualche fondo d’investimento ma solo per i grandi alberghi. Per la maggior parte però sono impenditori locali e albergatori che vogliono espandersi approfittando del calo dei prezzi. «Giorni fa un settantenne mi ha detto che sta trattando per un residence vicino al proprio albergo per creare un’unica struttura e lasciarla al figlio».
L’aumento delle vendite sulla Riviera Romagnola è diventato un caso per l’alta concentrazione alberghiera, ma la crisi del settore riguarda tutta la penisola. Sul sito BancaDelleCase ci sono circa 5 mila unità in vendita. A Roma se ne contano 126, a Milano 167, a Firenze 114, a Venezia 287. Si va da poche camere fino a 16 mila metri quadrati e più di 200 camere con annessa area fitness, centro congressi e lounge bar. Sono numeri importanti. Considerato che il patrimonio alberghiero italiano è composto da 33 mila unità, sarebbe in vendita circa il 16 per cento delle strutture.
«Migliaia di alberghi sono in default, il fenomeno è molto più vasto di quanto non lo si voglia far apparire» commenta Giampietro Ferrari, head of operations per Remax commercial corporate. «La radice della crisi è culturale. La maggior parte delle gestioni e delle proprietà sono familiari e vivono di clienti abituali. Non c’è stata una evoluzione verso l’ospitalità internazionale. Nei Paesi dove operano le grandi catene alberghiere, la crisi del Covid si è sentita meno. Oggi il turismo funziona se ha un respiro internazionale. E questo vuol dire adeguarsi a certi standard qualitativi che richiedono investimenti. Un esempio di come si muove il mercato è Wyndham Hotels & Resorts, il maggior franchising globale che ha in portafoglio 20 brand e offre ai suoi più assidui clienti una fidelity card per soggiorni gratuiti in tutto il mondo».
Remax sta effettuando una mappatura degli alberghi italiani per individuare quelli con alti livelli qualitativi dove dirottare i propri investitori. «Temo che non andremo oltre il 5 per cento, volendo essere ottimisti» afferma Ferrari. «Sono scettico, tanti alberghi ora sul mercato resteranno invenduti. La maggior parte sono edifici con 30-40 stanze mentre gli imprenditori stranieri ne chiedono oltre 80. Molte strutture sono indebitate, con procedure fallimentari in corso. Tranne Venezia, Milano e Roma, dove c’è stato assalto agli hotel da parte di catene estere e fondi, gli investitori non si getteranno sulle “seconde linee”».
C’è poi la questione dei prezzi. «È vero che sono scesi ma c’è un forte gap tra la percezione del valore da parte della proprietà e quello che il mercato riconosce. L’invenduto è alto» dice Gianluca Sinisi, licence partner e amministratore delegato Engel&Völkers Lombardia. «È un patrimonio potenzialmente interessante ma spesso abbandonato da anni. Tante località termali rispetto a 30-40 anni fa hanno un aspetto spettrale. Oggi il concetto di cura alla persona è cambiato, si guarda più al benessere e poche strutture si sono aggiornate».
Benedetto Puglisi, head of hospitality di Engel&Völkers dà la misura della fibrillazione del mercato. «Nel 2021 abbiamo registrato un aumento degli “asset” in vendita del 30 per cento sul 2020, mentre i passaggi di proprietà sono cresciuti del 20 per cento. Nel 2019 il volume di transazioni di questi asset in Italia è stato pari a 3,3 miliardi di euro, un record. E anche quest’anno si registra una crescita».
Il Covid ha messo gli albergatori di fronte a un bivio: modernizzarsi o scomparire. Ora sono le grandi catene internazionali a dettare legge. n
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