Dal 7 settembre in El Salvador la criptomoneta più diffusa al mondo affianca il dollaro come valuta corrente e per le rimesse degli emigrati. La rivoluzione voluta dal giovane presidente Nayib Bukele si sta allargando a macchia d’olio anche a Cuba, Venezuela e Honduras. Oltre ai problemi tecnici, il nodo da sciogliere è quello su quale organismo controllerà valori e transazioni.
È febbre da bitcoin in America latina e per rendersene conto basta dare un’occhiata al calendario recente di questa euforia da criptomonete. Il caso più eclatante è quello di El Salvador dove il 40enne presidente Nayib Bukele, un millennial ex pubblicitario della Yamaha con il pallino della tecnologia applicata alla finanza, il 7 settembre scorso ha introdotto come valuta ufficiale proprio il bitcoin.
La criptomoneta affianca, così, il dollaro, visto che da 20 anni il Paese centroamericano non ha più una valuta nazionale e proprio grazie al fatto di dipendere dall’emissione monetaria Usa, fino a oggi ha avuto il minor tasso di inflazione dell’America latina, con il credito più a buon mercato della regione, due vantaggi enormi. Non a caso oltre il 75% dei salvadoregni sono stati finora contenti di compare e vendere con il biglietto verde, mentre appena il 20% si dice «entusiasta della criptovaluta», con il restante 80 che il giorno del lancio o non sapeva cosa fosse o non voleva essere costretto a ricevere pagamenti in moneta virtuale.
«Vogliamo i dollari» gridavano migliaia di manifestanti nelle strade centrali della capitale San Salvador, lo scorso giorno dell’adozione del bitcoin.
Di fronte a queste proteste, Bukele ha dichiarato che bisogna «avere pazienza, molto presto la gente sarà entusiasta del Chivo (l’app statale per lo scambio di bitcoin e dollari, ndr)» e che «il 100% dei problemi tecnologici saranno risolti». Già perché nei primi giorni gli oltre 200 bancomat di bitcoin installati nel Paese centroamericano e i 50 installati negli Stati Uniti per consentire l’invio di rimesse da parte dei tanti migranti che vivono negli Usa hanno funzionato «a singhiozzo».
Al pari del portafoglio virtuale el Chivo, che consente di inviare in tempo reale sia bitcoin sia dollari dall’estero in El Salvador senza pagare nulla a intermediari storici come Western Union e Money Gram. Da allora però le cose sono migliorate e il 18 settembre scorso oltre il 17% della popolazione della nazione, pari a 1,1 milioni di persone, aveva già scaricato el Chivo sugli smartphone. Nelle previsioni di Bukele il bitcoin allevierà molti problemi economici, a cominciare dall’azzeramento dei costi per l’invio di soldi dall’estero che rappresentano, secondo i dati della Banca Mondiale, un quinto del Prodotto interno lordo salvadoregno.
Solo dagli Stati Uniti stiamo parlando di 6 miliardi di dollari di rimesse l’anno. «Grazie al bitcoin il risparmio per i miei compatrioti quest’anno sarà di 400 milioni di dollari» assicura Bukele, che ha legato gran parte della sua credibilità prossima ventura proprio sulla criptomoneta.
Inoltre, El Salvador è uno dei Paesi meno bancarizzati al mondo, il 70% delle persone non ha un conto bancario ma adesso, scaricando el Chivo sul cellulare, la fascia di gran lunga maggioritaria della popolazione dall’economia potrà essere inclusa, tracciata e pagare in modo rapido senza avere a che fare con le banche. Non bastasse questo, per cercare di «convincere» l’80% dei suoi concittadini ancora perplessi di fronte al bitcoin, il cui tasso nei confronti del dollaro è volatile per definizione (il 7 settembre, per esempio, è crollato del 17% in 24 ore), il governo di Bukele ha regalato 30 dollari in bitcoin per fare acquisti via app. Le aziende devono accettarlo per legge e la cosa ha scatenato polemiche, ma sono autorizzate a scambiare istantaneamente tutti i bitcoin in dollari, una volta ricevuti.
Tutto bene dunque? Niente affatto. Secondo Anastasia O’Grady del Wall Street Journal il sistema monetario implementato in El Salvador «è estremamente rischioso perché i dollari inviati tramite Chivo sono una risorsa digitale parallela con un tasso di cambio fisso, deciso dal governo di Bukele, uno a uno, rispetto al dollaro vero». In altre parole, «quando i salvadoregni convertono i loro bitcoin in dollari, diventano detentori solo di una finzione di dollari reali, una risorsa sostenuta dal credito del governo di Bukele che un domani potrà sempre rinnegare la sua promessa di agganciare la nuova criptovaluta uno a uno al dollaro, svalutando il bene».
A quel punto, «sarebbe impossibile fermare questa impopolare confisca dei beni perché la moneta equivalente in dollari nel portafoglio elettronico Chivo sarebbe emessa e sostenuta dal governo, che, tra l’altro, già oggi è molto indebitato. Se questo sembra familiare» chiosa la O’Grady «è perché è una versione truccata dell’attuale sistema di cambio argentino».
Se il caso di El Salvador è unico perché una criptovaluta come il bitcoin non può essere controllata da una banca centrale, c’è un altro piccolo Paese latinoamericano che da un anno ha già introdotto una sua valuta digitale, combinando i vantaggi delle criptovalute e del denaro tradizionale. Si tratta delle Bahamas, le isole off-shore che hanno lanciato nel 2020 una versione in criptovaluta del loro dollaro nel tentativo di evitare di spostare denaro fisico attraverso le 700 piccole isole e azzerare così i costi bancari.
Ma la febbre del bitcoin è arrivata anche a Cuba, l’isola comunista che dallo scorso 15 settembre ha aperto alle criptovalute per i pagamenti e gli scambi. A regolare tutto, naturalmente, è la Banca centrale cubana, che dà l’ok a ogni operazione e concede le licenze ai fornitori dei servizi che gestiscono bitcoin et similia. La notizia è una rivoluzione per un Paese alle prese con una crisi economica e sociale senza precedenti ma non coglie più di tanto di sorpresa.
Lo scorso maggio, infatti, il presidente Miguel Díaz-Canel aveva affermato che il suo governo stava analizzando «la convenienza» dell’uso delle criptovalute nelle operazioni economiche del Paese, il cui Pil è crollato dell’11% nel 2020 a causa dell’impatto della pandemia che ha azzerato il turismo, principale fonte del bilancio statale in dollari ed euro. A detta degli analisti, le criptovalute potrebbero essere una soluzione per chi non si fida del peso cubano (svalutatissimo) ma ha scarso accesso ai dollari.
Certo, l’invito alla cautela è grande. Non a caso, la stessa Banca centrale cubana si è dichiarata «esente da ogni responsabilità» che possa sorgere «in caso di truffe» e ha avvertito dei rischi che le operazioni con asset virtuali hanno per la loro elevata volatilità. Inoltre le criptovalute sono indipendenti da qualsiasi banca centrale e quindi possono essere usate anche per riciclaggio.
Lo dimostra il caso del narco-stato venezuelano dove la Russia, che da anni fa affari con i governi di Hugo Chávez e Nicolás Maduro, dopo aver venduto enormi quantità di armi ha realizzato per il Paese il Petro: lanciato nel febbraio 2018 con l’obiettivo di contenere l’iperinflazione del Venezuela, è stato fin da subito criticato dalla comunità internazionale perché offre a Vladimir Putin una sponda perfetta per evadere sanzioni e riciclare soldi.
Le criptovalute si stanno diffondendo pure nel resto dell’America centrale. In Honduras, a fine agosto, è stato inaugurato il primo bancomat di criptovalute. In un’esclusiva business tower nella capitale Tegucigalpa si trova infatti oggi «la bitcoinera», un bancomat che permette di comprare le criptovalute più utilizzate, bitcoin ed ethereum, in cambio di lempiras – la valuta locale – ed è gestito dal Tgu consulting group di Juan Mayén, un honduregno di 28 anni. Al momento nella «bitcoinera» si possono acquistare solo criptovalute, ma «presto potranno anche essere vendute e nel Paese centroamericano si installeranno più bancomat di criptovalute» assicura Mayén.
Infine non va dimenticata Panama, dove è stato di recente presentato in Parlamento un disegno di legge per regolamentare l’uso del bitcoin. Non stupisce in un Paese che è uno snodo del narcotraffico e del riciclaggio.
