Home » Attualità » Economia » Perché i fondi Ue non aiutano il Made in Italy

Perché i fondi Ue non aiutano il Made in Italy

Perché i fondi Ue non aiutano il Made in Italy

  • Per la politica agricola ci saranno meno soldi
  • La botte piena e la cassa vuota

In cambio dei finanziamenti del Recovery fund che l’Europa farà arrivare (se va bene nel 2023), il nostro Paese pagherà un prezzo pesante in termini di specificità delle colture. E la nuova «etichettatura alimentare» imposta dalle multinazionali del cibo penalizzerà molti prodotti di qualità.


Un coro a bocche chiuse come quello di Madame Butterfly ha accolto il Recovery fund tra i campi. L’agricoltura rischia di fare la parte di Cho Cho San, costretta a guardare all’orizzonte sperando che «un bel dì vedremo» un fil di speranza. Perché se tutti si sono affrettati nel dire che bello che bello, poi hanno fatto i conti e hanno scoperto che per i campi italiani questo patto europeo è al ribasso.

Il presidente di Coldiretti Ettore Prandini ha detto: «Grande accordo, ma il governo usi quei soldi per l’agricoltura». Gli ha fatto eco Dino Scanavino (Cia): «L’accordo è fondamentale, ma ora l’Italia dovrà definire un piano per la riforma della Pac e il rilancio dell’agricoltura». Di rimando Massimiliano Giansanti di Confagricoltura: «Bene il Recovery, ma ci aspettavamo la conferma in termini reali delle risorse finanziarie della Pac (Politica agricola comunitaria)». E perfino la ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova, se da una parte dice «Abbiamo maggiori opportunità grazie al Recovery», dall’altra deve ammettere che le risorse finanziarie comunitarie destinate all’agricoltura «sono insufficienti perché non è possibile chiedere agli agricoltori maggiori sacrifici, soprattutto sul versante ambientale, senza offrire adeguate risorse in cambio».

Al di là della retorica, i conti nei campi non tornano. La Pac dipende dal bilancio comunitario già decurtato dalla Brexit. Il Recovery fund è finanziato dallo stesso bilancio. Risultato: per la politica agricola ci saranno meno soldi. Non solo, alle aziende agricole i primi contributi arriveranno se va bene dal 2023 perché la Pac avrà almeno due anni di ritardo a causa della necessità di ricostruire l’accordo sul bilancio comunitario.

La Commissione agricoltura del Parlamento europeo ha chiesto alla Commissione di prorogare gli attuali regimi di sostegno e un intervento urgente di 400 milioni per alleviare in parte gli effetti del Covid sulle aziende agricole; per ora Ursula von der Leyen – la presidente tedesca della Commissione – non ha risposto. Per l’agricoltura italiana, il Recovery rischia così di essere uno strumento del tutto penalizzante.

Il sostegno agricolo dovrebbe perdere il 10% del suo budget sulla Pac, mentre sul regime transitorio l’Italia sa già che nel prossimo anno ci rimetterà per i pagamenti diretti (i contributi alle colture) il 4% (circa 200 milioni) e per lo sviluppo rurale il 15% (circa 300 milioni).

La nuova Pac a regime conterà su 70 miliardi in meno. Ma l’aspetto più pericoloso è che gli aiuti del Recovery fund per gli Stati nazionali sono per una parte agganciati al famoso (e fumoso) Green new deal, che per adesso ha già determinato un taglio nella previsione d’investimento sullo sviluppo rurale di 8 miliardi. In cambio, l’Italia deve accettare di sottostare alla «campagna verde» che, nel linguaggio europeo, significa agire su due fronti: incremento delle coltivazioni biologiche e adesione al programma alimentare «farm to fork».

Sono entrambi protocolli che svantaggiano l’Italia. Il primo perché è tarato sulle agricolture estensive del Nord Europa, il secondo perché pone un tema esiziale per il made in Italy: l’introduzione del Nutriscore, l’ormai famosa etichetta «nutrizionale» a semaforo che piace tanto alle multinazionali del cibo e mette fuori mercato gli artigiani del gusto. Proprio in questi giorni, la Corte di giustizia europea ha riaffermato che le etichettature sul latte, i formaggi, il grano imposte dall’Italia sono contrarie ai trattati europei.

Pare evidente che la richiesta del presidente Coldiretti Ettore Prandini di aumentare l’autosufficienza alimentare italiana (durante il Covid il 57% delle imprese agricole ha perso fatturato, la nostra dipendenza dall’estero ha sorpassato il 25% dei consumi) attingendo alle risorse del Recovery fund sia destinata a cadere. Perché è proprio il Recovery che toglie fondi all’agricoltura e quelli che lascia alla Pac li subordina al cambiamento di business agricolo da sostenere. Che è quello dei Paesi del Nord e di Germania e Francia, che possono convertire ad aree protette grandi superfici «marginali», che possono fare quantità senza essere costretti come l’Italia a puntare sul valore aggiunto dei prodotti a marchio, che hanno filiere molto capitalizzate e non costituite da piccole aziende, che possono, attraverso la concentrazione distributiva, condizionare la «dieta» degli europei.

Nonostante ciò, l’agricoltura italiana pre-Recovery è la più produttiva d’Europa (lo certifica l’Eurostat che stima un valore aggiunto di 32,2 miliardi su 60 miliardi di produzione lorda vendibile). Non a caso Paolo De Castro, già ministro italiano e leader Pse nella commissione agricola di Strasburgo, dice: «Ci aspettiamo che l’obiettivo di armonizzare le etichettature nutrizionali sia su rigorose base scientifiche e non porti a semplificazioni inaccettabili come il Nutriscore che discriminerebbe le nostre produzioni». Ma il Nutriscore piace tanto alle multinazionali che piacciono tanto alla Commissione – presieduta da Ursula von der Leyen – che propone un baratto agricolo: meno competitività italiana in cambio del Recovery.

La botte piena e la cassa vuota

Perché i fondi Ue non aiutano il Made in Italy
Una cantina a Montepulciano (GettyImages).

A dire quanto il mondo del vino sia mutato (in peggio) soccorre la battuta di Gianni Agnelli che rispose, alla domanda perché mai si fosse comprato Château Margaux, uno dei più prestigiosi e antichi premier cru di Bordeaux: «L’investimento in vino conviene sempre, mal che vada te lo bevi!». Non è più così.

C’è chi avendone troppo deve svenderlo. Spuntano al pari dei «compro oro» i compro vino che acquistano cantine intere a prezzi di realizzo dai maggiori ristoranti e nel contempo anche i vignaioli più blasonati vanno alla «botte dei pegni» a dare in cambio di liquidità i loro preziosi liquidi. È l’effetto Covid sul fu dorato mondo del vino.

Tra i primi a segnalare questo profondissimo disagio economico è stato niente meno che Joe Bastianich: gli italiani lo conoscono per le sue severissime pagelle a Masterchef. Ha dovuto mettere all’asta 30.000 bottiglie di pregiatissimi vini nazionali per salvare i conti del suo Del Posto, tempio della cucina italiana a New York, la perla più preziosa della collezione di 25 «tavole» che Joe con la mamma gestisce negli Usa mentre in Friuli, terra d’origine, hanno una quarantina di ettari di vigna.

Bastianich conta di ricavare dalle sue bottiglie 4 milioni di dollari, infinitamente meno di quanto avrebbe incassato vendendole à la carte. Anche Danny Mayer, che ha una super-catena di ristoranti, per ricavare un milione di dollari da restituire al fondo dei suoi dipendenti che glieli ha prestati ha messo all’asta le cantine dei suoi ristoranti più famosi: Meyer Gramercy Tavern, The Modern, Union Square Cafe, Maialino e Marta.

Se Oltreoceano va così, in Italia i tempi sono ancora più grami. Gianfranco Vissani, che è alla testa di un’associazione di oltre 100.000 ristoratori nata per protesta contro il governo che ha chiuso i locali causa Covid, ha detto a tutti e ovunque che se va avanti così due terzi dei locali sono destinati a fallire. Il riparo momentaneo? Vendere in blocco le carte dei vini; le case d’asta italiane da Pandolfini a Cambi stanno organizzando per la ripresa di settembre molti appuntamenti.

Da questa necessità di alleggerimento dei magazzini è nata anche un’altra idea: non comprare vino da offrire ai clienti, ma farselo dare in conto vendita. A organizzare questo nuovo modo di distribuire le bottiglie sono stati per primi Gianni e Giacomo Miscioscia, che con la loro compagnia The Winesider hanno promosso le bottiglie in deposito per supportare i ristoranti italiani durante la ripartenza nella Fase 2.

In sostanza i ristoranti non hanno più il magazzino, ma semplicemente un po’ di bottiglie che sostanziano la carta. Se le vendono le pagano, altrimenti le aziende ritirano l’invenduto. Ovviamente questo «scambio» è gestito dai Miscioscia che offrono anche altri servizi di consulenza. Alle cantine resta così il problema di vendere e poi d’incassare.

Sandro Boscaini, presidente di Federvini, da tempo ha lanciato l’allarme: «Abbiamo le botti stracolme e rischiamo di non sapere dove stoccare la nuova produzione, abbiamo sofferto la mancata vendita dei vini di alta gamma. Ci mancano 80 milioni di turisti, le vendite nei ristoranti e il sistema non ha più la forza finanziaria per fare da banca ai venditori finali dilazionando il pagamento delle fatture, in Italia le cantine con oltre 50 milioni di fatturato sono poco più di tre decine».

Il sistema dunque è in sofferenza: c’è troppo invenduto. L’unico aiuto offerto dal governo è la distillazione di soccorso (il vino è pagato 28 centesimi al litro) per produrre disinfettanti e un contributo di 200 milioni non ancora non attivato per «diradare» le vigne. Inezie. Perciò le cantine vanno alla «botte dei pegni». I primi a muoversi sono stati quelli del Consorzio del Chianti Classico, che peraltro hanno già deciso di ritardare di un anno l’immissione sul mercato dell’annata 2019.

Per sostenere questo shock finanziario il presidente Giovanni Manetti ha firmato un accordo col Monte dei Paschi di Siena: 12 mesi di credito in cambio del vino. Eguale strada hanno percorso a Montalcino. La Castiglion del Bosco di Massimo Ferragamo ha firmato un finanziamento da un milione di euro con Bpm dando in pegno il vino in affinamento (il Brunello sta nelle botti almeno quattro anni) e il presidente del Consorzio Fabrizio Bindocci benedice l’operazione: «Quella dei pegni rotativi a garanzia delle Dop italiane introdotti dal decreto Cura Italia rappresenta una chiave per il futuro delle nostre imprese».

È un modo di vedere il bicchiere mezzo pieno; la verità – sotto forma dei dati di Cantina Italia del ministero delle Politiche agricole – dice che causa Covid le eccedenze di Brunello ammontano al 7% (402 mila ettolitri) e quelle del Chianti Classico del 7,5% (812 mila ettolitri), mentre l’istituto di ricerche agricole Ismea certifica che il prezzo all’origine del Chianti è caduto dell’11% a 252 euro per ettolitro ma quello del Brunello è sprofondato: meno 18% a 905 euro per ettolitro. Così il Consorzio si appella a un’altra banca, Credem, per un generale prestito su pegno a cui possono accedere tutte le cantine di Montalcino: c’è troppo liquido, ma la liquidità è finita.

© Riproduzione Riservata