Il coronavirus certamente muterà alcune caratteristiche del nostro sistema. Quello che è molto più incerto se muterà fondamentalmente le dinamiche del mercato.
Come era prevedibile e dunque senza generare nessuna sorpresa la crisi Covid-19 produce dati fortemente sfavorevoli delle principali variabili economiche. I dati del mercato del lavoro negli USA segnano un nuovo record negativo facendo raggiungere alla disoccupazione la stratosferica cifra (per quella nazione) del 14,7%, dato che peraltro non sarebbe neppure quello corretto perché trascura una serie di categorie che non sono registrate. La produzione industriale in Italia precipita tra febbraio e marzo di quasi il 30 per cento traducendo in numeri ciò che appare alla vista: una Italia assolutamente ferma, ovvia conseguenza del pressoché totale lockdown imposto dal Governo.
Nondimeno, mentre in Italia la fase di rilancio procede con grandi difficoltà e guardando ancora a curare ciò che sta avvenendo, cioè con gli specchietti all’indietro, negli Stati Uniti si prospetta uno strano divaricarsi (decoupling) tra economia reale (Main Street) ed economia finanziaria (Wall Street). Infatti, nella giornata di venerdì il mercato finanziario americano ha sostanzialmente recuperato le perdite di questa fase pandemica e non è apparso curarsi dei drammatici dati della disoccupazione. Non è questo un fenomeno nuovo nelle economie anglosassoni, anzi più volte si è verificato nel corso degli anni passati, ed ogni volta ha generato un acceso dibattito tra economisti sulla solidità di questa evoluzione e sulle determinanti che la producono.
Una divaricazione che è stata all’origine delle critiche mosse alla globalizzazione, al capitalismo finanziario, all’evoluzione delle nostre economie e delle nostre società sempre più fondate sulla economia virtuale e sempre meno su quella reale. Una divaricazione che nell’ultimo decennio è stata additata come una delle cause delle crescenti diseguaglianze. E che si pensava rovinosamente distrutta dalla crisi Covid-19. Invece, a sorpresa, eccola rispuntare, a dimostrazione che le fondamenta del capitalismo nelle nostre società, nonostante tutto ciò che si afferma, sono robuste e che se la pandemia muterà alcune caratteristiche del nostro sistema, è molto più incerto se muterà fondamentalmente le dinamiche del mercato.
E ciò deve fare riflettere tutti coloro che cercano di approfittare di questa crisi per modificare il sistema capitalistico. In ogni caso, merita di essere attentamente studiato questo fenomeno, per capire se è una bolla di aggiustamento del mercato oppure un fattore strutturale del modello economico e sociale. Nel momento in cui si afferma che la pandemia ci obbligherà a modificare il sistema di welfare state comprendere quanto siano interrelate, e in che misura, economia reale ed economia finanziaria (virtuale per qualcuno) è essenziale per indirizzare le politiche e le riforme strutturali, per dirigere la fase di ripresa (recovery) che si annuncia, in quasi tutti i Paesi molto complessa. Un segnale di incoraggiamento però questa divaricazione lo può dare: i capitali sono mobili sul mercato e disposti ad investire laddove le occasioni premiano.
È una importante lezione per l’Italia che dovrà affrontare una fase di ripresa molto dura, che si troverà ad indebitarsi sul mercato finanziario, che avrà bisogno di capitali per nuovi investimenti e per sostenere una economia in difficoltà. Per evitare che la pandemia diventi carestia e la carestia povertà occorre dare certezze, semplificare i processi amministrativi, offrire liquidità a fondo perduto alle imprese, sostenere i redditi delle famiglie, varare un ampio ed articolato programma di rilancio del sistema industriale. Non vi è bisogno di andare a tentoni oppure di abbozzare complessi interventi di difficile gestione amministrativa. Occorre farsi guidare dal buon senso e dalle competenze tecniche, non tanto più quelle dei medici, quanto ora da quelle degli imprenditori, artigiani, commercianti, liberi professionisti che chiedono solo di dare nuova linfa alle loro attività. La crisi, lo dimostrano i dati della produzione industriale di oggi, rischia di ampliare le differenze nell’Europa, considerato che la caduta è più che doppia da noi rispetto agli altri partner. Si innesta un tessuto industriale che è fragile e che ha bassa produttività, che dipende molto dall’estero e poco dalla domanda interna, che ha bisogno di libertà e non di vincoli. Se non si frutta questa occasione per rimuovere alcune debolezze strutturali del sistema Italia sarà difficile che la nostra crescita sia solida e robusta. Altro che replicare la ricostruzione del dopoguerra e il boom degli anni Sessanta. Rischiamo di rimanere intrappolati nella dimensione dei bui anni Settanta, come vorrebbero d’altra parte alcuni dei protagonisti della politica di oggi, risorti dalle catacombe con la speranza di prendersi una rivincita sulla storia. Una rivincita che condannerebbe per sempre l’Italia al sottosviluppo.
