- Dai trafori ferroviari alle nuove autostrade agli interventi per rafforzare le strutture sanitarie. Lentezze e mancata efficienza dell’ex governo Conte, rischiano di vanificare anche l’opportunità del Recovery Plan. «Se non razionalizziamo la macchina pubblica e non semplifichiamo la vita alle imprese, questo Paese affonda» denuncia Gabriele Buia, il presidente dei costruttori.
- Quei 3 miliardi per Alitalia? Dateli ai dipendenti
E’ un crescendo, un torrente che diventa un fiume in piena. Avevamo contattato Gabriele Buia, 62 anni, presidente dell’Ance, l’associazione dei costruttori edili, per raccogliere un commento sulle esternazioni del premier Giuseppe Conte in tema di appalti e grandi opere. Il risultato è una denuncia sempre più dura contro un sistema di norme e di burocrazia che non solo soffoca le imprese, ma rischia di minare la parte fondamentale del Recovery Plan sulle infrastrutture. Una richiesta quasi disperata di cambiamento per snellire le procedure dei cantieri bloccati dalla burocrazia. I lavori da far partire o in ritardo sono tantissimi: basta scorrere l’elenco delle opere – di cui si dà conto nel box qui sotto – che sono state affidate dal governo a commissari straordinari proprio nel tentativo di accelerare i tempi. Ma partiamo dall’inizio: parlando al Senato, il 19 gennaio scorso, il presidente del Consiglio ha detto che «pur in un momento così difficile» gli appalti per i grandi lavori sono aumentati dai 39,4 miliardi del 2019 ai 43,3 del 2020. In realtà non è così. «Eh no, una cosa sono i bandi, un’altra la firma degli appalti e un’altra ancora l’apertura dei cantieri» ricorda Buia. «Dalla pubblicazione di un bando all’avvio dei lavori passano mesi se non anni. Non solo. Ci sono casi, come all’Anas, che ad alcuni bandi non segue alcuna assegnazione delle opere, perché la società non ha personale sufficiente per dare seguito a tutti i bandi che ha pubblicato. Si ricorda i bandi di Invitalia per l’emergenza sanitaria?».
Ce li racconti.
Si trattava di lavori per rafforzare le strutture sanitarie di fronte all’emergenza Covid, per un valore di oltre 700 milioni. Il bando è stato pubblicato il 2 ottobre e poi non se n’è saputo più niente, ci sono imprese che ancora aspettano i progetti.
Ma il decreto Semplificazioni non prevedeva un’accelerazione dei lavori?
Il decreto prevedeva l’apertura dei cantieri per tutte le gare bandite entro il febbraio 2020, ma siamo ancora fermi. E il problema non è solo questo.
Cioè?
Anche a monte del bando i tempi sono lunghissimi: da quando si decide di spendere un euro per un’opera a quando si fa il bando, passano anni.
È una situazione solo italiana o si riscontra anche in altri Paesi?
Solo, strettamente italiana: c’è troppa burocrazia. Da Tangentopoli in poi è stato un susseguirsi di norme che si sono moltiplicate a dismisura: dal 1994 a oggi il settore è stato interessato da 500 provvedimenti legislativi e normativi. Si è passati da otto provvedimenti l’anno negli anni Novanta ai quasi 30 nell’ultimo decennio. L’anno record è stato il 2019 con 39 interventi sul settore. E le pare normale che l’Anas debba aspettare cinque anni prima di ottenere tutte le autorizzazioni a un progetto prima di poterlo bandire? Per alcuni contratti di programma sono previsti 11 passaggi, approvativi con tempi lunghissimi: tre anni per quello Anas-Rfi. E poi nelle aziende pubbliche spesso manca il personale qualificato per gestire questa mole di lavoro.
Quanti sono i cantieri bloccati o che non sono stati ancora aperti?
Ne abbiamo censiti 744, di cui 87 sono grandi opere.
C’è il pericolo che gli investimenti previsti dal Recovery Plan subiscano rallentamenti?
La nostra preoccupazione è proprio questa: se non ci saranno semplificazioni strutturali alle procedure di spesa, rischiamo di far fallire il piano di investimenti del Recovery Plan. Non è una questione di risorse, invece di 220 miliardi possiamo anche riceverne 400, ma se non le spendiamo non servono a niente. E se questi sono i nostri tempi, noi quei soldi non li impiegheremo mai.
Sarebbe un’enorme occasione perduta.
Ogni miliardo di investimenti nel settore delle costruzioni crea 15 mila posti di lavoro. Per ogni euro investito c’è un effetto diretto e indiretto su tutta la filiera di tre euro e mezzo. Se poi parliamo solo di grandi opere, il risultato è la crescita del Paese, lo sviluppo economico. Pensi all’importanza delle infrastrutture per il Sud, che non a caso sono previste nel Recovery Plan: avere migliori infrastrutture significa portare più aziende nel Mezzogiorno.
Come evitare il rischio di non far partire gli investimenti?
È un problema che riguarda il sistema-Paese. Non è colpa di questo governo o di quel ministro. Neppure un supereroe riuscirebbe a ridurre i tempi con un sistema normativo come il nostro. Ma le pare possibile che quando i progetti vanno al ministero dell’Ambiente per ottenere una valutazione di impatto ambientale bisogna aspettare anni? E che lo stesso dicastero abbia sette miliardi pronti da investire e non riesca a farlo perché mancano i progetti? Nel nostro settore aspettiamo ancora 35 decreti attuativi. Se non razionalizziamo la macchina pubblica e non semplifichiamo la vita alle imprese, questo Paese affonda. Oggi rischiamo di giocarci il futuro delle prossime generazioni, di lasciare in eredità ai nostri figli un debito che non potrà essere ripagato. Quindi il governo deve intervenire sulle procedure di spesa e riformarle. Le imprese che operano con il pubblico sono estenuate, non ce la fanno più, c’è un clima di presunzione di colpevolezza automatico, immediato. Ormai c’è un rapporto tra il committente pubblico e le imprese come tra un sovrano e il suddito: tutto è dovuto. Pensi che per accelerare i tempi obbligano le imprese a preparare un’offerta in appena 10 giorni, fanno gare d’appalto per opere da centinaia di milioni dando un mese di tempo alle aziende per mettere a punto l’offerta e fare pure progetti migliorativi.
Cioè scaricano il problema dei tempi sulle imprese…
Esatto. Guardi, ci vuole un cambiamento radicale di questo Paese. Altrimenti sarà un disastro. Bisogna tagliare i rami secchi. E correre, correre, correre.
Quei 3 miliardi per Alitalia? Dateli ai dipendenti

La compagnia di bandiera che da 18 anni chiude i bilanci in perdita ha bisogno di altri soldi per continuare a volare. Ma invece di foraggiare l’ennesimo salvataggio, forse sarebbe meglio riconoscere un indennizzo pubblico direttamente ai 10 mila lavoratori…
di Francesco Bonazzi
Ma che ne sanno i millennial della gloriosa Alitalia? Bilanci in rosso da 18 anni consecutivi e leadership di mercato persa già dal 2011 a favore di Ryanair e delle compagnie low cost. Chi oggi ha 25 anni faticherebbe a capire anche solo il significato della locuzione «compagnia di bandiera». Eppure il nuovo governo, tra le prime bombe a orologeria da disinnescare si ritroverà quella della compagnia della Magliana, capace di bruciare otto miliardi dei contribuenti solo negli ultimi quattro anni. E pronta a inghiottirne altri tre, non appena la Commissione Ue avrà dato il via all’ennesimo salvataggio.
Che non ci sia un vero futuro per Alitalia, però, lo sanno tutti i partiti. Solo che non si può dire perché dà lavoro a oltre 10 mila persone, che con l’indotto diventano il doppio, concentrate quasi tutte nel Lazio. E i governi hanno paura di affrontare crisi dove sono in ballo tanti voti. Ma a dividere i prossimi tre miliardi stanziati dal Mef per il numero dei dipendenti rimasti, salterebbe fuori un assegno da 290 mila euro a testa. Il costo di un appartamento di medie dimensioni.
In fondo, da situazioni divenute imbarazzanti, nella vita, si esce anche così. Senza contare che molti dipendenti, tutti altamente qualificati, troverebbero un altro lavoro. E invece no, questa cancrena vintage chiamata Alitalia sta lì, con il commissario, Giuseppe Leogrande, che ha già avvertito che sono a rischio gli stipendi di gennaio e febbraio. E il governo non sa come far credere alla Commissione Ue che la newco Ita non ha nulla a che fare con quella vecchia.
Il mercato? Vade retro!
Gli irlandesi di Ryanair si volevano comprare Alitalia già quattro anni fa. Ma ai tempi del governo Gentiloni fu detto di no (con un referendum dei dipendenti) anche ad Air France. Oggi Lufthansa la vorrebbe, ma solo dopo che lo Stato ha fatto il lavoro sporco, ovvero sbarazzarsi di metà dei dipendenti. I quali, per inciso, non sono il problema, perché da quasi 10 anni il costo del lavoro di Alitalia è tra i più bassi d’Europa, mentre sono i costi di esercizio (flotta e carburante, innanzitutto) a essere esorbitanti.
Ebbene, mentre Giuseppe Conte andava a caccia di senatori «responsabili» per restare a Palazzo Chigi, Ryanair scriveva una letterina al ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli e alla collega delle Infrastrutture Paola De Micheli per chiedere che vengano messi a gara gli slot di Alitalia su Linate e Fiumicino.
La micidiale missiva è stata mandata anche a Bruxelles, che ancora non ha dato il via libera all’ultimo marchingegno escogitato a Roma per la compagnia aerea. Gli slot sono la vera polpa di Alitalia e per altro vengono assegnati da Assoclearance, associazione indipendente cui il ministero dei Trasporti ha girato una serie di incombenze sul traffico aereo. E quando un vettore fallisce, Assoclearance redistribuisce gli slot. La richiesta di Ryanair non può però essere accolta dal governo italiano, a meno di prendere l’ultimo piano Alitalia e buttarlo nel cestino.
In estate, il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha diviso in due la compagnia. Nella bad company, affidata all’avvocato Leogrande, ha lasciato debiti e zavorra, mentre nella good company (controllata al 100 per cento dallo Stato) ha messo la parte sana di Alitalia, slot compresi, e le ha cambiato nome in Ita, affidandole una dote di tre miliardi.
Europa matrigna
Per pagare gli stipendi, Alitalia ha bisogno urgentemente di affittare i rami d’azienda sani a Ita, ma la Commissione Ue non ha autorizzato l’operazione perché non la ritiene in linea con le regole europee in materia di concorrenza e aiuti di Stato. Alitalia era già in crisi profonda ben prima della pandemia cinese e Lufthansa, che nei mesi scorsi ha ottenuto il semaforo verde a una ricapitalizzazione pubblica da 9 miliardi, è stata costretta a vendere 24 slot su Monaco di Baviera e Francoforte. Si tratta di un precedente che spaventa la nuova Ita, guidata dal presidente Francesco Caio e dall’amministratore delegato Fabio Lazzerini.
Al momento la Commissione, rappresentata dal commissario ai Trasporti, la romena Adina Valean, e da quello alla Concorrenza, la danese Margrethe Vestager, non ha ancora accettato l’idea che la vecchia Alitalia possa vendere gli asset più importanti a Ita con una trattativa diretta. Inoltre, per approvare l’operazione occorre almeno salvare le apparenze, ovvero far finta che Ita non abbia nulla a che fare con Alitalia. In gergo si chiama «discontinuità aziendale». Ma non è facile presentarsi a Bruxelles con tre consiglieri di amministrazione di Ita su 11, compreso l’a.d. Lazzerini, che sono ex manager di Alitalia. In più, bisogna passare da una società all’altra tutta una serie di certificazioni tecniche per il volo. Infine, nel piano che Ita ha discusso con Bruxelles, ci sono solo cinquemila dipendenti su 10.250 e una flotta che può variare, a seconda del mercato, da un minimo di 50 a un massimo di 100 aerei. Per un vettore così piccolo, hanno obiettato dagli uffici della Commissione, servono davvero tre miliardi?
Pandemia a geometrie variabili
Il 22 gennaio, ascoltato dalle commissioni Affari costituzionali e Bilancio della Camera, il direttore generale di Alitalia Giancarlo Zeni ha raccontato che, come sostegni Covid, la compagnia «ha ricevuto aiuti per nove euro a passeggero, rispetto agli 88 di Air France-Klm».
Insomma, in base ai parametri di Alitalia, gli aiuti avrebbero dovuto ammontare a non meno di 1,5 miliardi, rispetto ai 272 milioni messi a disposizione dal governo italiano nel corso del 2020. Un anno da incubo, che ha visto il fatturato crollare del 78 per cento e i passeggeri diminuire del 70 per cento.
In realtà, per la politica, Alitalia non è più un problema legato all’offerta di servizi aerei ai cittadini, ma solo di gestione di una crisi occupazionale. Nessun euro dato ad Alitalia viene percepito come un qualcosa dato agli italiani perché possano volare, perché questi volano comunque da tempo con altre compagnie. Specialmente al Nord.
Il governo Conte bis, nei suoi quattro decreti Ristori, ha stanziato appena 18 miliardi per il 2020 e altri nove per quest’anno. Se si conta che in quattro anni Alitalia ci è costata otto miliardi, si capisce che i governi Gentiloni e Conte hanno avuto per la compagnia aerea un’attrazione davvero fatale, nonostante sia modernariato puro.
Nel giorno più difficile
Per giustificare la nazionalizzazione, si è detto che una meta turistica come l’Italia non può non avere una propria compagnia aerea e che tutti quei dipendenti non vanno lasciati per strada. Vero, ma la tutela dell’occupazione, così come gli standard di servizio anche sulle rotte meno convenienti, potevano essere tranquillamente inseriti nel bando di una nuova gara, assegnando punteggi diversi a seconda degli impegni presi dai concorrenti.
Sono tutte clausole che si possono inserire senza problemi anche nell’ambito delle nuove regole sulle crisi d’impresa. Ma si è scelto di fare diversamente, con un marchingegno furbetto, e ora siamo appesi a Bruxelles.
Oltre alle scelte discutibili ci sono le chiacchiere, che con gli stipendi a rischio sono decisamente insopportabili. Domenica 6 febbraio 2018, l’allora premier Paolo Gentiloni si celebrava in tv dal sorridente Fabio Fazio con questa «confessione»: «Il giorno più difficile del mio mandato da premier forse è stato quello nel quale abbiamo avuto l’impressione che ci fosse di nuovo una crisi irrisolvibile nell’Alitalia. Poi abbiamo lavorato una notte intera e l’abbiamo aggiustata».
Certo, con un prestito ponte da 1,6 miliardi, mai restituito e sui quali non è stato pagato dalla compagnia neppure un centesimo di interessi. Non è stato da meno Giuseppe Conte, che l’8 settembre scorso è andato a Modena, alla sua prima Festa dell’Unità, a fare un po’ di passerella. Oltre a liquidare l’ipotesi di un «rimpasto» di governo come «termine logoro», il sedicente avvocato del popolo ha detto che Alitalia «è una situazione complessa, perché avere un vettore di bandiera è importante e ha un valore aggiunto notevole, ma non vogliamo un carrozzone di Stato».
La consueta fumisteria alla Giuseppi, ma intanto resta il fatto di come spiegare ai millennial questi nuovi tre miliardi per Alitalia. Ma forse anche loro, in queste quarantene, hanno capito che l’Italia non è un Paese per giovani.
