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Migranti qualificati cercasi

Migranti qualificati cercasi

I lavoratori stranieri sono sempre più richiesti, e al tempo stesso sempre più poveri. La ragione del paradosso: manca manodopera professionale, e non saranno gli arrivi sui barconi a risolvere il problema.


«L’Italia ha bisogno di lavoratori immigrati» è il refrain che sentiamo ripetere, accompagnato da quello secondo cui «gli stranieri ci pagano le pensioni» o «ci servono per i lavori che gli italiani non vogliono più fare». Al di là dell’annuncio di 500 mila immigrati lanciato dal Ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, o dei report di Unioncamere Excelsior che dal 2021 teorizza un fabbisogno programmato di lavoratori stanieri pari a quasi 673 mila unità (ma ciò non vuol dire che non si possa attingere alle presenze già sul territorio), i numeri sul tavolo del nuovo decreto flussi per ora sono pura teoria.

Durante il click day del prossimo 27 marzo potranno fare domanda 84 mila lavoratori, ma sono ancora quelli previsti dal decreto 2022. Cifre importanti che però non devono farci cadere nel tranello di pensare che questa domanda di lavoro venga colmata dai disperati in arrivo sui barconi in una sorta di gioco di vasi comunicanti. «Il ciclo dei flussi finalizzati a compensare la domanda di manodopera poco qualificata, iniziato negli anni 2000, si sta esaurendo, oggi abbiamo bisogno soprattutto di immigrati qualificati» spiega Natale Forlani, presidente del Comitato scientifico per il contrasto alla povertà presso il Ministero del Lavoro. Lo dimostrano i dati dell’Istat da cui emerge che il 30 per cento degli stranieri si trova in condizioni di povertà assoluta, e rappresentano ormai un terzo dei poveri in Italia. Dunque, ricapitoliamo. Da un lato le associazioni di categoria ripetono che la domanda di lavoro immigrato è superiore all’offerta, dall’altro i salari degli stranieri continuano a diminuire. Un paradosso contrario alle leggi dell’economia e che, secondo Forlani, si può spiegare analizzando le caratteristiche dei settori del mercato del lavoro in cui si concentrano gli immigrati.

«Dall’agricoltura ai servizi alle persone, dalla ristorazione alla logistica, ci sono interi settori che ormai si reggono proprio sul lavoro sommerso e sottopagato degli immigrati» afferma Forlani. «Grazie al contributo di questa manodopera a basso costo solitamente reperita tramite circuiti informali – non certo tramite agente di collocamento – e in alcuni casi criminali, vedi il caporalato. Un circolo vizioso che i flussi illegali, considerati erroneamente “una potenziale forza lavoro”, rischiano di alimentare». Uno scenario che contrasta con quelli a tinte rosa dipinti ciclicamente da autorevoli esperti e istituti di ricerca come Idos e Fondazione Moressa, secondo cui gli stranieri rappresentano un bel tesoretto per le casse dello stato. «Un saldo positivo di almeno 500 milioni nel 2020» secondo Moressa, che stima i contributi Irpef ad addirittura 4 miliardi per un contributo totale di quasi 144 miliardi. Il 9 per cento del Pil.

Cifre mirabolanti che, se fossero reali, sarebbero una gran bella notizia: la conferma che le attuali politiche migratorie funzionano e sono in grado di valorizzare la popolazione attiva immigrata che, essendo più giovane di quella italiana, è una risorsa importante per la tenuta del paese. Ma queste cifre non sono reali e si reggono su escamotage. Quando telefoniamo all’Istituto Moressa per capire come abbiano fatto tali calcoli, Enrico Di Pasquale, il ricercatore che ha seguito il report, ammette che «i dati sui versamenti Irpef sono stati costruiti» a partire dall’unico grande dato disponibile fornito dal Mef (Ministro dell’Economia e della Finanza) sui 4,3 milioni di «nati all’estero». E poiché il Mef raccoglie i dati sulla base dei codici fiscali, conosce solo il paese di nascita dei contribuenti, non la loro cittadinanza. Il che significa che in questa categoria rientrano molti italiani nati all’estero, con uno stile di vita mediamente ben diverso da quello di un immigrato sbarcato a Lampedusa. Di Pasquale spiega che il Mef fornisce anche una stima del numero di contribuenti per Paese d’origine e la media dei versamenti. Se però quelli stranieri sono solo una stima, il contributo Irpef non può che essere un’ approssimazione. Peraltro assai lontana dalla realtà, come sostiene Forlani.

In base ai dati forniti dall’Osservatorio sulle retribuzioni dell’Inps, quasi la metà dei circa 1,6 milioni di stranieri occupati nei settori dell’industria e dei servizi prende meno di 10 mila euro, dunque rientra nella no tax area. Cioè non paga tasse. Gli agricoli e i domestici hanno retribuzioni medie persino minori. Solo il 6,4 per cento supera i 30 mila euro, e nel complesso le retribuzioni risultano inferiori del 30 per cento rispetto a quelle degli italiani. Ora, se si considera che da dati Mef, per le classi di reddito entro i 15 mila euro l’imposta media è circa 580 euro, al netto delle dovute detrazioni, si arriva a un totale di circa 980 milioni di euro di contributi fiscali. Meno di un quarto rispetto a quanto prospettato da Moressa. Anche l’impatto dei contributi previdenziali degli stranieri è lontano dalle aspettative, sia pure prendendo un numero di contribuenti gonfiato: i circa 2,9 milioni di soggetti sul cui conto risulta almeno un versamento Inps nel corso dell’anno. Ebbene, se teniamo conto delle retribuzioni medie e delle aliquote ridotte di lavoratori agricoli, per la gran parte stagionali, e domestici, si arriva a un totale, grosso modo, di 9 miliardi. Cifra ben al di sotto dei 13 teorizzati da Moressa.

Un totale contributivo quindi di 10 miliardi che viene annullato dalla sola spesa sanitaria, pari a 1.900 euro pro capite per i 5,172 milioni di stranieri regolari. Senza considerare i costi per l’istruzione, l’assistenza, i sostegni ai redditi e così via. «Gli immigrati offrono un contributo importante all’economia italiana» commenta Forlani «ma non possiamo più continuare a immettere sul mercato manovalanza a basso costo perché questo non può che impoverire ulteriormente la popolazione immigrata. Gli ingressi vanno programmati in base ai bisogni del mercato del lavoro e alla domande delle imprese, occorre superare il meccanismo del click day che peraltro non esiste in nessun altro paese europeo. Servono percorsi di formazione che coinvolgano le imprese, le agenzie del lavoro e i lavoratori, compresi quanti già vivono in Italia. Se davvero vogliamo aiutare gli immigrati a trovare valide alternative a lavori malpagati e sfruttati, non ci sono altre strade».

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