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Se perde il lavoro l’Italia rischia di esplodere

Se perde il lavoro l’Italia rischia di esplodere

Con la fine del blocco dei licenziamenti rischiano di restare a casa fra 500 mila e due milioni di persone tra dipendenti, autonomi, contratti a termine. E il disagio occupazionale rischia di diventare violenza.

Articolo uno della Costituzione: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Sì, ma quale? E quanto e per quanto tempo? Sul lavoro che non c’è è iniziato un inquietante conto alla rovescia. Sta per saltare il tappo dei licenziamenti: il 30 giugno, dopo oltre un anno di blocco, le aziende grandi che non chiedono cassa integrazione Covid possono mandare a casa i dipendenti; il 31 ottobre saranno libere anche le piccole aziende e quelle che utilizzano il Fis (Fondo d’integrazione salariale) o la cassa in deroga.

I numeri sono impietosi. Il segretario della Uil Pierpaolo Bombardieri stima che si avranno tra 500 mila e 2 milioni di posti di lavoro in meno se non ci sarà una riforma degli ammortizzatori sociali. Che sono cresciuti come una metastasi del Welfare: dalla Naspi (indennità di disoccupazione) al reddito di emergenza anche per chi lavorava in nero, a quello di cittadinanza che si porta dietro abusi e un fallimento: le politiche attive del lavoro naufragate con i navigator e col licenziamento, quello sì per giusta causa, del professor Mimmo Parisi dall’Anpal (l’Agenzia per il lavoro). Questo castello di ammortizzatori pesa sul bilancio dell’Inps quasi a fiaccarlo e pare cinico notare che un sospiro di sollievo l’istituto presieduto da Pasquale Tridico lo ha tirato per l’ecatombe (oltre 126 mila morti: terzi al mondo per tasso di letalità) da coronavirus che fa risparmiare 11,9 miliardi di pensioni, il 5,4 per cento del totale.

Ma sono una goccia nel mare cui si assomma un’attesa messianica dei soldi del Recovery plan che arriveranno a licenziamenti già esplosi. Lo stesso Tridico ha presentato i conti: 4,3 miliardi di ore di cassa integrazione autorizzati (l’anno prima, 259 mila!) con una spesa che oltrepassa i 22 miliardi. Peraltro i lavoratori assistiti ci hanno rimesso 8 miliardi. Un po’ di soldi sono i fondi Sure (un prestito ad hoc della Commissione europea: 16 miliardi su 27,4 che ci sono stati accordati). L’Istat l’ultima foto dell’Italia seduta in panchina l’ha scattata in aprile. Nonostante il blocco dei licenziamenti, in un anno sono andati in fumo 945 mila posti di lavoro.

A pagare il prezzo più alto autonomi (355 mila in meno) e contratti a termine (372 mila in meno), ma sono «spariti» anche 218 mila dipendenti a tempo indeterminato con una falcidia di giovani e donne. A questo conto mancano le partite Iva che hanno chiuso i battenti: 170 mila, cui si aggiungono 30 mila professionisti.

Un indicatore del disagio occupazionale sono due settori che con grande fatica ora provano a ripartire: nella lunga filiera eventi e matrimoni si stima che ci sia una possibile crisi occupazionale per 546 mila persone, nel settore degli spettacoli dal vivo il disagio riguarda almeno 100 mila persone (il 50 per cento delle imprese non riaprirà). Sono il popolo dei mille bauli che si è visto in piazza Duomo a Milano, in piazza del Popolo a Roma. Oggi in Italia si lavora sempre di meno: 22 milioni e 197 mila, il 37,45 per cento della popolazione che deve pagare 17,7 milioni di pensionati il 29,98 per cento degli italiani. Il tasso di disoccupazione è statisticamente salito poco (non per gli under 25 che sono al 31,6 per cento), dal 9,8 al 10,2, ma solo perché l’Istat ha smesso di contare come disoccupati i cassintegrati di lungo corso: li considera inattivi, quelli che il lavoro neppure lo cercano e sono 717 mila. A questa contabilità da incubo si aggiungono le vertenze perenni: dall’Embraco (400 lavoratori senza più speranza), all’Alitalia (i tagli di circa 6 mila occupati), dall’ex Ilva di Taranto (in pericolo 12 mila posti) a Air Italy (1.500 senza prospettiva), alla Whirlpool, alla ex Auchan. Ci sono altri 170 mila posti di lavoro in via di liquefazione.

Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico, cerca un nuovo approccio: creare un fondo per il rilancio delle imprese discutendo in Europa un allentamento dei vincoli sugli aiuti di Stato, difendere i capitali sociali e procedere con le riassunzioni man mano che le aziende ripartono. Ma nel frattempo cresce il disagio sociale. Non passa giorno senza proteste. Alcune anche violente, come davanti a Montecitorio dove i Cobas hanno preso d’assalto i carabinieri, altre emblematiche come il primo sciopero dei lavoratori di Amazon per denunciare condizioni di sfruttamento. Ma risposte che non siano d’emergenza non ce ne sono. Ne è una dimostrazione il pasticciaccio brutto di via Flavia (è la sede del ministero del Lavoro) andato in scena una settimana fa. Il ministro Andrea Orlando aveva annunciato un nuovo blocco dei licenziamenti fino al 28 agosto, poi è stato costretto a ritirarlo.

Mario Draghi ha stoppato questa iniziativa che ha scaldato gli animi delle parti sociali e diviso la già disomogenea maggioranza di governo. Confindustria, sia col presidente Carlo Bonomi sia con il vice Maurizio Stirpe, ha contestato Orlando: «È un arbitro che ha la maglia di una squadra». La squadra è quella dei sindacati con Maurizio Landini (Cgil) che ammonisce: «Per noi la partita non è chiusa, c’è il rischio che dal primo di luglio ci siano migliaia di licenziamenti. Il governo ha ascoltato troppo la Confindustria».

Il premier è convinto che non si potesse continuare con un blocco indefinito, ma che la misura adottata (le imprese possono attivare la cassa integrazione senza pagare i contributi, ma non possono licenziare) sia un’ottima mediazione. Severe critiche al blocco dei licenziamenti sono arrivate dal professor Pietro Ichino, il massimo giuslavorista italiano: «Ci sono quattro motivi per cui è dannoso. Collocare le persone in cassa integrazione significa condannarle a un periodo lungo d’inoccupazione con progressivo deterioramento della loro re-impiegabilità; si inducono le imprese a non assumere e i lavoratori a non cercare nuova occupazione perché sono parcheggiati in Cig; le persone “messe in letargo” guadagnano molto meno e il quarto motivo, che è il più grave, è il costo di queste misure».

E Ichino si chiede: «Mantenere in cassa integrazione un milione di persone costa all’Erario per tutto il 2021 circa 20 miliardi, a cui si aggiungono i successivi oneri pensionistici. Non sarebbe meglio investire questi soldi per mettere in comunicazione al meglio l’offerta con la domanda di lavoro esistente, rafforzando il trattamento di disoccupazione?»

In un’intervista al Corriere della Sera Orlando fa capire come il blocco dei licenziamenti sia esiziale per il Pd, pronto anche a bloccare un provvedimento che sta a cuore al centrodestra e cioè la sospensione del codice degli appalti. E ha rilanciato: «Bisogna riformare gli ammortizzatori sociali, il che significa di fatto puntare tutto sulla cassa integrazione, differenziandola». Ma poi estende il contratto di espansione ad aziende di piccole dimensioni scaricando sull’Inps attraverso prepensionamenti e altri costi. La domanda è se i numeri di bilancio di Tridico lo consentono.

Sul fronte politiche attive del lavoro invece è tutto un po’ fumoso: arriveranno i tre commissari all’Anpal, poi forse i 4,4 miliardi previsti dal Recovery, ma si andrà avanti con i vari redditi: d’emergenza, di cittadinanza. Dal Microcredito – presieduto da Mario Baccini – in presa diretta con Anpal e ministero del Lavoro sono partiti però progetti di lancio e sostegno per le microimprese innovative così da dare uno sbocco ai giovani.

Nel frattempo però parte del «capitale umano» di maggior valore scappa. La Corte dei conti ha fatto sapere che negli ultimi 8 anni sono aumentati del 41,8 per cento i giovani laureati andati all’estero a causa «delle persistenti difficoltà di entrata nel mercato del lavoro e con la laurea che non offre maggiori possibilità d’impiego» peraltro con salari troppo bassi.

Gaetano Stella, presidente di Confprofessioni, nota: «Nell’ultimo decennio abbiamo perso 735 mila professionisti, con il Covid il quadro è addirittura peggiorato e nelle fasce di età più giovani manca all’appello quasi un milione di persone». Forse più che il blocco dei licenziamenti servirebbe il blocco delle partenze.

C’e però chi il lavoro lo rifiuta

L’Italia riapre per la stagione estiva senza la sua manodopera. Mancano baristi, camerieri, cuochi e balneari. Tanti preferiscono percepire il sussidio di disoccupazione o il reddito di cittadinanza…

di Laura Della Pasqua

Se li rubano l’uno con l’altro, fanno loro ponti d’oro offrendo aumenti, in altre stagioni, impensabili. È scattata la caccia a camerieri, cuochi, commessi, perfino a lavapiatti e addetti alle pulizie. Non importa se l’inglese zoppica, se non si conoscono alla perfezione le regole per servire a tavola o non si è arrivati alla finale di MasterChef, purché siano pronti a cominciare subito.

La saracinesca del coprifuoco si sta lentamente alzando, i bar cominciano a riempirsi e fioccano le prenotazioni ai ristoranti. Dopo tanti mesi chiusi in casa, ora con i dati in calo della pandemia, c’è voglia di normalità, di un cappuccino e cornetto servito al bancone e non su uno strapuntino sul marciapiedi; di sedersi al ristorante senza dover fuggire a una certa ora come Cenerentola.

La domanda sta per impennarsi e questo non può che far felici gli operatori del commercio dopo il pressing serrato per anticipare le riaperture. Tutto quindi potrebbe volgere al meglio se non fosse che per tornare alla normalità manca un protagonista in un ruolo chiave: il personale. Ristoranti, bar ed esercizi della ristorazione, durante questo anno e mezzo di chiusure, hanno perso la manodopera. Cuochi e camerieri sono diventati introvabili. I proprietari degli stabilimenti balneari, già intasati di prenotazioni, temono di dover mandare figli e parenti ad aprire gli ombrelloni perché gli stagionali sono scomparsi dal mercato.

Anche gli studenti, che in estate erano pronti a improvvisarsi esperti di cocktail per i locali sul litorale o bagnini, non si trovano più. Può sembrare un paradosso in un Paese come l’Italia in cui il tasso di disoccupazione viaggia a due cifre e supera il 10 per cento.

Cosa sta succedendo? Il fenomeno ha dimensioni importanti se si pensa che la Fipe-Confcommercio, la Federazione dei pubblici esercizi, ha chiesto al governo di intervenire, predisponendo incentivi per rendere il settore appetibile a chi cerca lavoro.

Con il lockdown sono andati persi 350 mila posti su 1,2 milioni di addetti. Non solo a causa delle aziende fallite. Molti si sono dimessi. La Fipe ha calcolato che gli esercizi commerciali hanno il 20 per cento della manodopera in meno.

Qualunque sia l’incentivo che il governo metterà in campo per far tornare sui suoi passi chi se ne è andato e per spingere chi non ha lavoro, dovrà sicuramente essere più vantaggioso dei sussidi Covid dispensati a pioggia e del reddito di cittadinanza. «Ditemi quale giovane è disposto a rinunciare a 700-800 euro mensili senza far niente, per alzarsi alle 6 del mattino e andare a sistemare i lettini in spiaggia o starsene ore dietro ai fornelli di un ristorante e guadagnare, ben che vada, mille euro» commenta Aldo Maria Cursano che, come imprenditore, sta vivendo questa situazione.

Oltre a essere vicepresidente vicario della Fipe, gestisce diverse attività a Firenze, due ristoranti, un caffè storico e un centro di produzione, conto terzi, di sushi. «Su 48 dipendenti, una decina ha dato le dimissioni. Qualcuno sono riuscito a trattenerlo anticipando il pagamento delle ferie e il Tfr. Un paio di professionisti del sushi sono tornati in Giappone. Chi mi ha lasciato è andato a lavorare nei supermercati o in società edili come muratore. Mi hanno detto che la ristorazione non offre più certezze, ora riapre ma tra un mese chissà cosa può accadere. La cassa integrazione poi è stata calcolata sulla paga base, quindi un cuoco che guadagnava 2.500 euro ha incassato come l’ultimo cameriere appena assunto e quei pochi soldi sono arrivati con mesi di ritardo. Così molti hanno trovato soluzioni alternative. E allora meglio un cantiere, la grande distribuzione o le aziende di delivery che non rischiano di chiudere».

Se questa è la conseguenza del lungo lockdown, un danno uguale lo fanno i sussidi per il Covid. «Percepire un reddito senza far niente è un forte disincentivo al lavoro. Siamo arrivati al punto che tra ristoratori ci rubiamo i pochi cuochi rimasti sul mercato. Agli annunci si presentano ragazzi senza esperienza che dobbiamo formare, ma il tempo non c’è» dice amaro Cursano.

Non va meglio negli stabilimenti balneari. «Questa estate si prevede il pienone ma manca il 30-40 per cento del personale» lamenta Antonio Capacchione, presidente del Sib, il sindacato dei balneari.

Per i giovani che hanno preferito i sussidi alla ricerca di un impiego, l’aiuto statale alla fine sarà un boomerang. In carenza di manodopera, molti proprietari di bagni hanno cominciato a tagliare i servizi. «C’è chi ha sospeso quello al tavolo con menu alla carta sostituendolo con il take away a pietanze fisse. L’ho fatto anche io nel mio stabilimento in Puglia dopo le dimissioni di 5 camerieri e 3 addetti alla cucina. E siccome mancano i bagnini, invece di radunare i lettini a fine giornata, si lasciano sotto agli ombrelloni. C’è chi mi ha confessato che è meglio il sussidio che lavorare in spiaggia».

Ma Capacchione lancia il sasso: «Attenzione, perché gli aiuti statali rischiano di diventare una trappola. Se un’mpresa si rende conto che può fare a meno di un terzo del personale, di sicuro in futuro continuerà con l’organico ridotto. E allora finiti i sussidi, esaurito il reddito di cittadinanza, il mercato del lavoro sarà più avaro di opportunità».

Il problema riguarda anche le città d’arte. Santino Cannamela, presidente di Confesercenti Firenze, ha raccolto le preoccupazioni di istoratori e proprietari di locali. «Soltanto qui, avrebbero questo problema almeno un centinaio di attività. Una cosa del genere non si era mai vista». Molte mansioni stagionali erano coperte da studenti fuori sede che, con la didattica a distanza, sono tornati nella città d’origine per risparmiare sull’affitto.

Il fenomeno è più marcato nell’agroalimentare. Il settore stima una ripresa più veloce del previsto ma teme di non riuscire ad agganciarla proprio per la carenza di manodopera. Secondo Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia, il problema non è la fine del blocco dei licenziamenti, ma la mancanza di risorse qualificate che accompagnino la crescita.

Al settore servirebbero almeno 40 mila addetti nei prossimi 5 anni. I sussidi fanno strage di occupati anche in Paesi dove c’è tradizionalmente più mobilità lavorativa. Nel Regno Unito l’effetto Brexit ha rimandato a casa tanti stranieri svuotando ristoranti e pub ma, come ha scritto il Financial Times, c’è anche la diffidenza di chi ha ottenuto gli aiuti pubblici e ora teme di perderli se accetta nuovi lavori senza certezze. Tutto il mondo è Paese. n

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