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In economia la partita dell’Italia è doppia

In economia la partita dell’Italia è doppia

Per rilanciare il Pil dell’Italia Giorgia Meloni ha bisogno di spazi di manovra sui conti. Ma sulla sua strada ci sono il Meccanismo di stabilità e il ritorno al rigore sul debito: una trappola da evitare e un sistema da ricontrattare.


Non una, ma tre lettere scarlatte: Mes. La Germania spinge perché Giorgia Meloni commetta adulterio verso i suoi elettori e sé stessa. Ha giurato: «Finché ci sarò io al governo l’Italia non accederà mai al Meccanismo europeo di stabilità». Da quella sigla che non abbiamo ratificato e dunque è bloccata dipende il cammino del nostro presidente del Consiglio sull’impervio sentiero dell’economia nel continente. Giorgia Meloni ha bisogno di tempo: deve diluire gli impegni del Pnrr, favorire un cambiamento di governance nella Bce, la Banca centrale europea, soprattutto sterilizzare il ritorno al rigore del nuovo patto di stabilità.

Con 2.770 miliardi di debito pubblico sulle spalle e i tassi d’interesse in ascesa per il combinato disposto dell’insipienza del numero uno della Bce Christine Lagarde e dell’insistenza di Isabel Schnabel, suo «controllore», l’Italia deve indicare un’altra politica economica comunitaria e nell’area Euro. Per farlo, però, deve costruire una proposta politica alternativa cambiando maggioranza a Bruxelles e a Strasburgo. Olaf Scholz, il cancelliere tedesco a capo di un governo «a semaforo» che viaggia a corrente alternata, lo sa e in parte lo teme, per questo ha fretta.

Vuole che l’Italia ratifichi il Mes perché la Germania potrebbe aver bisogno di usare lo strumento per sterilizzare le sue crisi bancarie senza pagare dazio, visto che, con tutti i conti in ordine, può farsi prestare i soldi al minimo. Invoca il Mes perché non si fida della sostenibilità del debito italiano se passa il nuovo patto di stabilità, così da costringere Roma ad accettare il programma di assistenza finanziaria rafforzata che significherebbe mettere sotto tutela il governo di centrodestra che a socialdemocratici e tanto meno al Pse, il Partito socialista europeo, non piace proprio.

La Meloni dopo le prossime elezioni europee, manca un anno, può disegnare uno scenario inedito al vertice di Bruxelles. La destra comanda in Svezia e Finlandia, in Olanda il partito dei contadini ha spaventato Mark Rutte l’ultrarigorista tutto finanza e tecnologia, in Spagna i conservatori del Ppe sono dati vincenti alle prossime politiche di maggio, in Francia Emmanuel Macron è al punto più basso di popolarità mai registrato, i Paesi di Visegrad sono decisi a far valere il sovranismo in sede comunitaria. La maggioranza Ursula scricchiola. Giorgia Meloni, a capo dei conservatori europei, può giocare una partita doppia: politica ed economica. I segnali ci sono. Il presidente del Ppe Manfred Weber – in Germania è all’opposizione – ha già assunto una postura di attenzione nei suoi confronti. Lo ha fatto ammettendo che sui migranti l’Italia è rimasta sola, lo ha fatto strattonando la «popolare» Ursula von der Leyen – data in uscita per occupare il posto di segretario generale della Nato – accusata di un eccesso di dipendenza dal socialista olandese e vicepresidente della Commissione Frans Timmermans sulle questioni verdi.

È pur vero che la Cdu tedesca per dichiarazione del suo segretario Friedrich Merz ha detto di puntare a un secondo mandato della baronessa al vertice della Commissione, ma era un appuntamento di partito cui era presente la stessa Von der Leyen. Weber invece non ha nascosto di puntare sulla Meloni nella speranza dopo il 2024 di abbandonare il compromesso con i socialisti, peraltro alle prese col Qatargate, dando vita a una Maggioranza Giorgia con conservatori, popolari, liberali e gruppi autonomisti (quello dove siede la Lega è Identità e Democrazia; vi è confluita anche la francese Marie Le Pen). Alla Meloni – in virtù del suo ferreo atlantismo mentre la Von der Leyen, sulla scia di Macron e degli interessi commerciali della Germania, fa l’occhiolino alla Cina – continuano ad arrivare attestazioni di stima da oltreatlantico.

Le sfide che EuroGiorgia ha di fronte sono molte. La prima riguarda la presenza italiana nella stanza dei bottoni della Bce. Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, dopo 12 anni al vertice di Palazzo Koch in autunno vuole andarsene. Il suo successore potrebbe essere Fabio Panetta – dato come ministro tecnico dell’Economia nel governo Meloni – che siede nel comitato esecutivo della Bce e più volte si è schierato contro il duo Lagarde-Schnabel sul rialzo dei tassi per inseguire l’inflazione. Panetta governatore di Bankitalia resterebbe di diritto al vertice Bce ma rischierebbe l’isolamento, per questo la Meloni ha bisogno di incidere sulla governance dell’Eurotower.

Ai tassi attuali la spesa per interessi è tale da ingessare qualsiasi iniziativa: nel 2024 è stimata al 4,1 per cento del Pil, al 4,2 e al 4,5 nei due anni successivi. In cifre significano: 75,6 miliardi quest’anno, 85,2 il prossimo, 91,6 miliardi e 100,6 nei due anni successivi. Le promesse di riforma del fisco, sgravi contributivi, sostegno alle famiglie, riforma delle pensioni e rilancio del made in Italy con questa ipoteca sono difficili da mantenere. Per farlo è indispensabile cambiare le politiche di Bruxelles. Prima fra tutti la risposta che s’intende dare all’Inflaction reduction act di Joe Biden che ha messo sul piatto 370 miliardi di dollari e sta attraendo nuove industrie negli Usa. La Von der Leyen, con il Green deal, ha risposto solo teoricamente. Soldi veri dall’Europa non ce ne sono.

Il regime degli aiuti di Stato governato dalla commissaria Margarethe Vestager (è colei che ha fatto fallire le banche italiane perché ha sbagliato a leggere le norme) penalizza i Paesi con minore capacità fiscale distorcendo la concorrenza in Europa. La Germania può finanziare le sue imprese molto più di quanto non faccia l’Italia, che ha bisogno di una consistente reindustrializzazione; ma la stessa Francia, ormai alle prese con un pesantissimo debito pubblico (più del 114 per cento del Pil, oltre i 2.950 miliardi di euro, il che rende indispensabile per Macron la contestatissima riforma delle pensioni) non è in grado di reggere il passo tedesco.

Tutto questo in un contesto di norme «green» che penalizzano i nostri comparti produttivi: dall’automotive (vale 90 miliardi, 300 mila occupati in oltre 5 mila imprese) agli imballaggi, dall’agroalimentare agli allevamenti zootecnici, dagli elettrodomestici alla moda, i diktat europei per la vagheggiata sostenibilità aumentano a dismisura i costi per il manifatturiero italiano. C’è poi l’incognita più preoccupante: il nuovo patto di stabilità. Fra pochi giorni, il 28 e 29 aprile, si riunisce l’Eurogruppo e sul tavolo c’è l’ordine del giorno tedesco: drastica diminuzione del debito per chi è ne troppo gravato. Il ministro delle finanze Christian Linder ha esposto le linee generali: riduzione dell’1 per cento all’anno dello stock per i Paesi che superano il 90 per cento nel rapporto debito Pil; fissazione del tetto di spesa per questi stessi Paesi al livello di crescita del Pil.

Per l’Italia significa partire ogni anno con almeno 25 miliardi di euro «ingessati». Il nostro ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha messo le mani avanti: «Il negoziato è molto complesso, non solo per nuove regole ma anche per come uscire dalla sospensione delle regole di bilancio che termina con il 31 dicembre 2023; il clima politico di rilassamento di questi anni generato dal Covid e dalla guerra attorno alle regole di bilancio non renderà semplice il ritorno a una qualsiasi regola». C’è infine il capitolo del Pnrr. L’Italia punta a una doppia dilazione: su adempimenti e scadenza dei lavaori. Valdis Dombrovskis, vice-presidente della Commissione, ha già detto che l’Italia – ancora non ha incassato la terza tranche di 19,1 miliardi – non è la sola a chiedere una revisione; segno evidente che qualcosa nella progettazione del Recovery plan non è stata azzeccata. Questa è la partita che Giorgia Meloni deve giocare sui tavoli europei. Farlo da leader è cosa diversa che gestirla sotto ricatto del Mes.

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