C’è uno scontro meno evidente di quello che si sta combattendo in Ucraina, ma potenzialmente devastante per la vita delle persone: quello tra le monete. A fronte del superdollaro, un euro debole brucia ricchezza e genera inflazione. E finora la politica dell’istituto che dovrebbe difendere gli interessi del Vecchio continente è stata fallimentare. Intanto, le divise cinese e russa fanno la loro partita per nuovi equilibri negli scambi globali.
Strano che l’Europa così socialdemocratica nelle sue aspirazioni, costruita attorno all’euro, e l’Italia avvezza a politiche di «tassa e spendi» non abbiano ricordato un suggerimento di John Maynard Keynes, il profeta dell’economia d’intonazione socialista: «Non c’è mezzo più sicuro, né più sottile per rovesciare la base della società esistente che corromperne la valuta». Mentre si assiste agli orrori di guerra in Ucraina, comprese le fake news, mentre il presidente Ue Ursula von der Leyen è inerme contro i nemici ma pronta a staccare l’elettricità ai suoi concittadini, mentre la corsa dei prezzi erode potere d’acquisto e produzione dell’Occidente, non ci si rende conto che è in atto una guerra per banche centrali; la posta in gioco è il dominio dei mercati. In Cina lo sanno che corrompere la valuta è il modo migliore per imporre una nuova globalizzazione con Pechino protagonista, al punto che sono i primi a pagare in rubli e in yuan il petrolio e il gas russo imitati, e volentieri, dall’India. Ma lo sa pure Jerome Powell, presidente della Federal Reserve, che non è affatto dispiaciuto di avere tra le mani il «superdollaro» anche se questo mette in gravissima difficoltà l’euro, sempre più anemico.
Di certo non si dispiace di questo scontro tra monete neanche El’vira Nabiullina, governatrice della Banca di Russia, che nonostante l’economia di Mosca non stia benissimo al di là dell’imponente surplus energetico (260 miliardi di dollari, e non sono spiccioli), vede crescere i pagamenti in rubli. Lei, come il suo collega cinese Yi Gang, va in direzione ostinata e contraria rispetto a ciò che fanno i banchieri centrali d’Occidente: i tassi li abbassa. Per spingere l’economia la Banca di Russia li ha tagliati per tre volte da inizio anno; Yi Gang, che ha un tasso medio del 3,65, lo ha limato costantemente da aprile. La Cina, stretta da lockdown e altissimo debito privato, deve non gravare i conti con interessi troppo alti. Anzi, potendo Pechino, con la leva politica, non interessarsi troppo dell’inflazione dominante, scaricando all’estero su chi importa (praticamente il resto del pianeta visto che un’idea distorta ha designato Pechino a fabbrica globale), continua a immettere liquidità nel suo sistema. L’idea che muove la strategia monetaria cinese sostenuta da Xi Jinping, e se ne avrà conferma il 16 ottobre all’apertura del congresso del Partito comunista, è di accreditare il renminbi (l’altro nome dello yuan) come moneta globale in tutto il mondo non occidentale.
In questo scenario c’è da chiedersi cosa stia facendo Christine Lagarde. La presidente della Banca centrale europea è stata costretta a chiedere scusa. L’8 settembre, annunciando il secondo giro di vite sui tassi, e altri ce ne saranno a breve, ha dovuto ammettere: «Abbiamo fatto degli errori nelle previsioni sull’inflazione, come tutte le istituzioni internazionali, come molti economisti, perché è virtualmente impossibile prevedere e includere nei modelli il Covid, la guerra in Ucraina, il ricatto sull’energia».
La signora Lagarde è in ottima compagnia: Ursula von der Leyen e Paolo Gentiloni, quest’ultimo commissario all’economia, per un anno hanno annunciato che l’inflazione sarebbe stata passeggera. Il risultato è che oggi viaggia sul 9,1 per cento (dato europeo). Lagarde ha così iniziato a rincorrere la Federal Reserve. Powell ha annunciato che pur di domare l’inflazione è disposto ad arrivare a un tasso oltre il 4 per cento. Ma c’è una fondamentale differenza tra America ed Europa. Mentre negli Stati Uniti l’energia costa ancora relativamente poco, tutto sommato occupazione e domanda tengono e la Fed conta sul superdollaro per condizionare i flussi economici, la Bce sta alzando i tassi nel momento in cui gran parte dell’economia europea è entrata nel tunnel recessivo a causa di rincari e scarsità di energia. La prova che la manovra sui tassi dell’Eurotower è tardiva e insufficiente l’hanno fornita i mercati. Nonostante il giro di vite, l’euro ha continuato a stare sotto la parità col dollaro. Il lavoro della Bce peraltro è solo iniziato.
Dopo i due rialzi (0,50 a luglio, 0,75 a inizio settembre) è scontato un ulteriore ritocco di tre quarti di punto. Lagarde ha però un problema non da poco: il debito (soprattutto) italiano che viene appesantito dal rialzo dei tassi. E il mantra del «too big too fail» (troppo grande per fallire) ormai non sembra protezione bastevole per l’Italia. La Bce ha due minacce da contrastare: il superdollaro che sta mettendo in crisi l’euro e ha ormai portato il dollar-index a livello 87 (non lo si vedeva da 12 anni): significa che sta schiacciando tutte le monete dei Paesi emergenti e può provocare una crisi finanziaria globale e il crollo della domanda europea.
Un problema ancora poco affrontato è il rischio che questa guerra per banche centrali si trasferisca a quelle commerciali. L’incremento di tassi della Bce indotto dalle mosse della Federal Reserve e dall’inflazione europea galoppante (anche in Usa i tassi restano elevati all’8,3 per cento, ma inferiori a quelli Ue su cui pesano molto i rialzi energetici) rendono i mutui e tutti i prestiti, compresi quelli al consumo, molto più onerosi. In una fase in cui famiglie e aziende sono in crisi di liquidità, drenata dai fornitori energetici, il pericolo che le sofferenze bancarie aumentino esponenzialmente c’è.
Si potrebbe dunque sommare alla crisi di consumo e di produzione anche quella finanziaria e del credito. Che può essere accentuata da altri due fattori: primo, la fuga dei capitali verso il dollaro; secondo, un ulteriore rialzo dei rendimenti dei titoli di Stato europei (per l’Italia sarebbe un disastro: il nostro Btp ha toccato rendimenti anche sopra il 4 per cento e lo spread sta sempre attorno a quota 230). Peraltro è quello che temono gli analisti di tutto il mondo. Che si aggiunga alla guerra in Ucraina una guerra valutaria.
La riprova la fornisce la Banca del Giappone che è rimasta immobile per anni e ora sta studiando una manovra sui tassi per arginare la caduta dello yen. È crollato sul dollaro al punto che il biglietto verde è stato scambiato sopra i 140 yen rispetto ai 115 yen di marzo. La valuta giapponese è al livello più basso degli ultimi 24 anni. Un intervento sembra ormai non più rinviabile. Lo stesso succederà con la Banca d’Inghilterra che peraltro è stata la prima a muoversi. Londra è in bilico tra recessione e inflazione. Il dilemma quasi shakespeariano è: fermare la corsa dei prezzi rischiando di bloccare l’economia, ma cercando di salvare la sterlina, o lasciar correre l’inflazione a rischio di un crack prossimo venturo? Pensando che oltre al superdollaro, a provocare tutto questo è l’impazzimento dei prezzi energetici, verrebbe da dire parafrasando Amleto: c’è del marcio alla Borsa di Amsterdam!
