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L’Europa blocchi la fuga delle multinazionali

L’Europa blocchi la fuga delle multinazionali

Si moltiplicano i casi di gruppi stranieri che lasciano l’Italia e licenziano per delocalizzare in altri Paesi Ue dove il lavoro costa meno. Ecco perché serve una regia globale.


Alla Gianetti ruote di Ceriano Laghetto, in Brianza, hanno licenziato 152 persone con una secca email mandata alla fine del turno di notte. La proprietà è di un fondo tedesco senza volto, Quantum Capital Partner. Alla Gkn di Campi Bisenzio, che produceva componenti auto vicino a Firenze, tre mesi prima di spedire le 422 email con la lettera di licenziamento per tutti i lavoratori, i manager hanno pensato bene di vendere le azioni e farsi un gruzzoletto da 22 milioni di sterline. Perché qui la proprietà invece è di un fondo speculativo inglese di nome Melrose. Che all’incontro con il governo italiano ha poi mandato un avvocato, collegato in videoconferenza.

Ma sarebbe sbagliato focalizzarsi sui modi, specie con gente abituata a non metterci la faccia. Così come sarebbe miope dare la colpa all’eliminazione del blocco dei licenziamenti. Il fatto è che da noi si resta finché ci sono incentivi pubblici da spremere e know how di cui impossessarsi. Ma poi conviene chiudere baracca e burattini alla prima occasione, assoldare le guardie giurate da schierare ai cancelli e andare a produrre in Serbia, Slovenia, Bulgaria, Romania e Ungheria, dove il lavoro si paga la metà.

L’altra faccia dell’Europa unita, quella dove il dumping sociale, salariale e fiscale è tollerato e finanziato, è sfuggente perché per coglierla bisogna andare a guardare dietro ogni singola storia di delocalizzazione, spesso negata dietro la facciata di ipotetiche e irreversibili «crisi aziendali». È andata così anche in quest’ultimo mese e mezzo, dove le storie dei licenziamenti selvaggi sono finite sui telegiornali. Forse solo perché riguardano padroni stranieri.

Del resto la notizia che Stellantis, francese ma presieduta ancora da John Elkann, ha mandato a casa 800 dipendenti in Piemonte con incentivi vari, ha guadagnato al massimo qualche trafiletto distratto: non sia mai che a qualcuno venisse in mente di chiedere la restituzione della garanzia della Repubblica italiana sul prestito da 6,3 miliardi che l’ex Fca ha ottenuto da Intesa Sanpaolo.

Com’era ampiamente prevedibile, appena è saltato l’insensato blocco dei licenziamenti, il 30 giugno scorso, si sono scatenate vertenze di ogni tipo. Il giorno prima, sindacati, governo e Confindustria avevano firmato una specie di accordo, un «avviso comune», con il quale le aziende si impegnavano a esaurire tutti gli ammortizzatori sociali a disposizione prima di procedere alla risoluzione dei rapporti di lavoro.

Su quell’avviso ci sono anche le firme del premier Mario Draghi e del ministro del lavoro Andrea Orlando. Ma i proprietari stranieri lo hanno bellamente ignorato. Eppure la cassa integrazione la pagano in gran parte i contribuenti italiani. La Gianetti ruote ha 114 anni di storia e rifornisce grandi marchi come Harley Davidson, Volvo e Mercedes. Il 3 luglio ha lasciato a casa i suoi 152 dipendenti con una sbrigativa comunicazione mandata via WhatsApp ed email.

I proprietari del fondo Quantum hanno impiegato 72 ore scarse ad approfittare della fine del blocco. Nel terribile 2020, secondo fonti sindacali, la Gianetti ha fatturato 56 milioni (dai 76 milioni del 2019), ma ha anche dimezzato le perdite a cinque milioni. Quantum Capital Partners rilevò la Gianetti dagli americani di Accuride (componenti auto) neppure tre anni fa, nell’agosto del 2018. Lo stesso fondo tedesco, l’anno scorso, ha chiesto la procedura fallimentare per la Slim Fusina rolling di Marghera, che produce rotoli di alluminio ed era stata comprata nel 2017 da Alcoa. Ora il segretario della Cgil, Maurizio Landini, sospetta che dietro i licenziamenti «in modalità killer» ci sia una delocalizzazione nell’Est Europa.

Anche dietro la brutalità della Gkn Driveline di Campi Bisenzio, che il 9 luglio ha messo in mezzo a una strada senza preavviso 442 lavoratori, c’è una storia dai contorni vagamente predatori. Oltre che poco educati. Il 15 luglio, al primo tavolo istituzionale convocato dal governo a Firenze, l’azienda ha mandato un avvocato in teleconferenza. Alessandra Todde, viceministro allo Sviluppo economico, era incredula. «Non mi è mai capitato di confrontarmi con un avvocato dell’azienda e non con il management», è sbottata l’esponente M5s.

Ma la sostanza è peggio. Gkn è il primo grande fornitore ex Fiat che chiude nella scintillante era Stellantis, semplicemente sulla base di «previsioni negative per i prossimi cinque-sei anni». Gkn era stata comprata nel 2018 dal fondo londinese Melrose. Il progetto adesso è quello di restare in Italia con il solo stabilimento di Brunico e rifornire Stellantis dagli altri impianti che Gkn ha in Slovenia. Nel periodo 2014-2020, il governo di Lubiana ha incassato 4,1 miliardi di fondi strutturali dall’Ue, con l’Italia che è diventata il secondo Paese di esportazione.

Quello di Gkn sembra proprio il remake del caso Bekaert, l’azienda belga che produce rivestimenti in acciaio per pneumatici e che nel 2018 trasferì tutta la produzione di Figline Valdarno in Romania e nella Repubblica ceca, licenziando 318 persone. L’estate calda del (non) lavoro prosegue con i 400 lavoratori della ex Embraco di Riva di Chieri, in Piemonte, che dal 22 luglio sono a casa dopo tre anni di cassa integrazione. L’azienda brasiliana produce compressori per frigoriferi e ha già spostato la produzione in Slovacchia. Per il proprio sviluppo economico, lo scorso anno la Slovacchia ha ricevuto dall’Unione europea 2,4 miliardi di euro (versandone 0,7).

Altra storia arrivata al punto di non ritorno è quella della Whirlpool, la multinazionale americana che produce elettrodomestici. Dopo mesi e mesi di rassicurazioni e tira e molla, l’azienda ha approfittato della finestra estiva per confermare il licenziamento dei 327 dipendenti dello stabilimento di Napoli. Il sospetto che torni il blocco è confermato da un fatto altrimenti inspiegabile: Whirlpool ha rifiutato il supplemento di cassa integrazione fino a ottobre. Le produzioni campane sono destinate a finire in Polonia: negli ultimi sei anni, è il Paese che ha incassato più fondi strutturali Ue di tutti, ben 86 miliardi contro i 45 dell’Italia.

Il record di tempismo va comunque alla multinazionale svizzero-svedese ABB, che da anni produce componenti elettrici e il 30 giugno ha licenziato i 100 lavoratori dello stabilimento vicentino di Marostica; secondo i sindacati, non ha mai chiuso un bilancio in perdita. Ai dipendenti risulta che la produzione finirà tutta in Bulgaria, ma l’azienda tace e per ora non tratta con nessuno. Solo nel 2019 la Bulgaria ha ricevuto dall’Ue 2,17 miliardi di euro (con appena 0,48 miliardi di contribuzione), in gran parte per accrescere la propria competitività. Ovviamente anche nei confronti dell’Italia, diventata il suo secondo mercato di destinazione.

Questa decimazione industriale e sociale della molle Italia non sembra destinata a fermarsi. Il ministro Orlando, dopo i casi Gianetti e Gkn, ha annunciato un provvedimento per multare pesantemente le aziende che prendono sussidi statali e poi scappano.
Ma rischia di essere un’arma spuntata perché non tutte le multinazionali incassano soldi pubblici. Infatti il suo collega del Mise, Giancarlo Giorgetti, dopo i licenziamenti che hanno fatto scalpore ha osservato: «Purtroppo è inevitabile che queste cose accadano, però non possono succedere in questo modo perché noi abbiamo in mente di “fare il west” non il “far west”».

E chi si è ostinato a dare la colpa di tutto al blocco fatto saltare dal governo Draghi sembra ignorare che questi licenziamenti sono permessi dal Jobs Act, voluto nel 2016 da Matteo Renzi e dal suo governo di centrosinistra. Di fronte alle delocalizzazioni, sarebbe invece ora di combattere in Europa per un minimo di armonizzazione fiscale e dei contratti di lavoro. Fino a quando lo stipendio medio di un lavoratore bulgaro sarà 6.000 euro l’anno, ovvero meno di un quarto di un collega italiano (28.800, fonte Eurostat 2020), e finché un operaio romeno o ungherese costeranno tra i 7.700 e i 9.900 euro al massimo, prendersela con le mail e con le multinazionali cattive sarà un esercizio retorico quanto inutile.

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