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Fonsai, Ligresti, Mediobanca e il futuro della finanza italiana

Fonsai, Ligresti, Mediobanca e il futuro della finanza italiana

I giochi sono fatti: Unifonsai è nata. Orfana. Ecco gli scenari che si possono aprire tra i protagonisti in campo

Unifonsai è nata, alla fine. Ed è una bambina sana. Ha un handicap, però: è nata orfana, e ancora non lo sa. Tutti i gruppi di potere che l’hanno così fortemente voluta, sono sul punto di declinare – una “morte” metaforica per carità – dai loro storici ruoli egemoni. Mediobanca, senza dubbio; e le cooperative della Lega, che detengono il controllo del gruppo. Oggi comandano, domani chissà: e non solo perché “così vanno le vicende umane” ma proprio per così è andata questa vicenda qui. Cerchiamo di  capire perché, e cosa potrà  accadere nelle prossime settimane.Quali giochi sono fatti e quali no.

Il controllo di Fonsai è passato a Unipol.
Gli aumenti di capitale hanno un inoptato mostruoso (poco meno di un miliardo su 2,2!), ma le banche consortili si sono impegnate, dietro lautissimo compenso, a sottoscriverlo. Solo se le indagini della magistratura ordinaria, evidentemente necessarie dalla lacunosità della condotta delle autorità, riscontrassero tali irregolarità da imporre un’Opa su Fonsai alla vicente Unipol, quest’ultima potrebbe tirarsi indietro.

Ma lo farebbe, poi, dopo tanto lavoro e dopo essersi spinta operativamente così avanti? È da vedersi, e comunque è improbabile che si arriva a un’ingiunzione d’Opa. L’amministratore delegato di Unipol, Cimbri, ieri s’è detto tranquillo: a buona ragione, probabilmente, perché difficilmente la Procura si prenderà, a posteriori, la responsabilità di far saltare un’operazione ormai davvero priva di alternative. Quindi i giochi industriali sono fatti, o almeno, sono bene iniziati. Comunque vada il nuovo corso di Fonsai targato Unipol, peggio di com’era la gestione precedente non potrà essere.

La famiglia Ligresti.
Va subito sgombrato il campo da un equivoco: don Salvatore e i suoi tre figli escono maciullati da questa storia, come reputazione e – per modo di dire – come tasca. La dissipazione degli asset aziendali di Fonsai perpretata negli ultimi anni e la gestione priva di senso data al gruppo si è ritorta contro di loro nel corso del lungo e ondivago negoziato con Mediobanca e ufficiosamente anche con Sator. Quel che resta è materia di indagini giudiziarie.

Mediobanca e il suo vertice.
È stata la regista del disegno. Ne ha  portato la croce agli occhi dei mercati che hanno suggellato, con l’imbarazzante accoglienza ai due aumenti di capitale, tutti il loro disaccordo. Non è la prima volta che Mediobanca si pone contro il mercato: anzi, era la regola della Mediobanca di Cuccia. Che i “giovani vecchi” ai quali è toccata l’eredità di quel potere – l’amministratore delegato Alberto Nagel e il presidente Renato Pagliaro – seguissero la tradizione era purtroppo fatale, essendo due prodotti di quel vivaio, gli unici tra quelli bravi a non essersi ribellati ai costumi della casa.

Come sarebbe stato possibile migliorarla, quella tradizione, volendo comunque  salvare come sempre capra e cavoli, cioè gli inconciliabili ruoli di azionista e consigliere dei gruppi di controllo delle società-clienti e, insieme, di loro finanziatore? Perserverando nel fare da “consigliori” dei Ligresti essendone anche il principale finanziatore, Mediobanca ha partorito il mostro di un accordo che per salvare alla meno peggio il valore dei crediti erogati ai Ligresti, ha calpestato gli interessi dei mercati. Tutto lecito, hanno detto per ora le autorità: si vedrà se il verdetto regolatorio resisterà alla lente delle Procure.

Ma cosa sarà del vertice di Mediobanca, gravato dai sospetti di aver dribblato le regole, con la sigla a quel documento che i Ligresti considerano un contratto e Nagel una mera lista di “desiderata” mai attuati? È del tutto irrilevante accanirsi sulle definizioni perché è invece chiaro che quel  tandem di comando ha commesso molti errori ma che nessuno di coloro che ne avrebbero il diritto – cioè i grandi soci di Mediobanca – è oggi nelle condizioni di licenziarlo. O perché quegli errori ha almeno in parte condiviso, come Unicredit; o perché di quegli errori e della soluzione che ne è derivata, Unifonsai, è stato vittima, come Bollorè, che puntando su Premafin e convincendo Groupama a fare altrettanto ha buttato via decine e decine di milioni di euro. Quindi la resa dei conti dei soci di Mediobanca contro Nagel e Pagliaro non è all’ordine del giorno.

È un piatto che sarà consumato certamente, ma tiepido, se non freddo. È improbabile che si decida al consiglio d’amministrazione dei primi di settembre, dove Nagel pare voglia riferire sulla vicenda. Ma riferire cosa? Le ragioni per cui in sette anni e mezzo, da quando Maranghi, prima di essere licenziato, tentò di intimare a Ligresti una gestione di Fonsai più corretta, lui e Pagliaro non hanno saputo prendere un millimetro di distanza da Don Salvatore e dai suoi figli? Le ragioni per cui a novembre 2011 vollero che Jonella restasse in consiglio? C’è poco da riferire che i fatti non spieghino da soli.

Unipol.
La grande compagnia d’assicurazioni bolognese incassa, con quest’operazione, un “premio” della storia a un paziente gioco di posizione. Dopo gli eroici furori di Gianni Consorte, che – benedetto dai vertici del Pd Massimo D’Alema e Piero Fassino – “voleva una banca”, Unipol è stata dapprima ristrutturata dal “commissario tecnico” Carlo Salvatori, e poi ricondotta ai mestieri tradizionali dal successore Carlo Cimbri. Che fosse l’unica soluzione nazionale praticabile al disastro Fonsai è un fatto. Che Unipol, senza Mediobanca e Unicredit al fianco – creditori di Fonsai ma anche suoi – sarebbe stata in grado di annettersi comunque Fonsai è molto molto improbabile.

Quel che però rende Unifonsai orfana non solo della “madre” Mediobanca ma anche del padre, il movimento cooperativo “ex-rosso”, è l’evaporazione di qualsiasi logica industriale – e, tanto più, politico-ideologica – dal fatto che un gruppo di grosse cooperative di consumo e di produzione immobilizzino tanti soldi in una partecipazione così importante e così priva di sinergie concrete.

Pare che nei nuovi accordi parasociali tra le grandi coop azioniste si parli per la prima volta apertamente della possibilità di cedere la maggioranza. Non accadrà mai, forse, ma che se ne parli è già l’aperta violazione  di un tabù. E allora, da una parte i soldi investiti, dall’altra i dividendi incassati: di strategico, niente. Fino a quando durerà?

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