Da oggi, per accedere ai fondi di private capital basteranno 100.000 euro anziché 500.000… Un modo per entrare in uno dei club più remunerativi e di maggior successo, dove si muovono investimenti da migliaia di miliardi di dollari, attivi in ogni settore. Come dimostrano gli interesssi degli uomini e delle aziende che oggi dominano la finanza planetaria.
La notizia è passata quasi inosservata. Ma da poco più di un mese, dal 16 marzo, gli italiani con un portafoglio abbastanza ricco potranno entrare più facilmente in uno dei club più esclusivi e remunerativi del mondo. Quel giorno è stato pubblicato il decreto che abbassa da 500.000 a 100.000 euro la soglia minima di ingresso degli investitori non professionali nei fondi di private capital.
Trattandosi di investimenti rischiosi e a lungo termine, la quota destinata a essi non può superare il 10% del portafoglio finanziario del risparmiatore. Ma nonostante le limitazioni, si stima che la decisione del governo consentirà di far affluire nelle casse dei fondi privati 25 miliardi di euro, quintuplicando i valori attuali.
Questo significa, per una fetta di fortunati, non guardare più da spettatori le mosse dei più potenti gestori del pianeta, ma prendervi parte godendo dei frutti dei loro investimenti. Stiamo parlando di colossi come Blackstone, leader mondiale dei fondi di private capital con attività per 880 miliardi di dollari e proprietaria di ben 107 società: alla fine del 2021 gestiva 280 miliardi di dollari nel settore immobiliare, 261 miliardi nel private equity, 81 miliardi negli hedge fund e 258 miliardi nel credito e nelle assicurazioni. Oppure come Kkr, che amministra un patrimonio di 459 miliardi; o ancora Cvc Capital Partners, con un portafoglio di investimenti che vale 122 miliardi di dollari.
Sono società prevalentemente americane e britanniche che ormai anche in Italia conosciamo bene: Kkr si è fatta avanti per scalare Tim; Blackstone affianca i Benetton nell’offerta pubblica su Atlantia e continua a fare incetta di immobili, dalla sede del Corriere della Sera ai prestigiosi palazzi della Reale Compagnia Italiana; Apollo ha rilevato il patrimonio di hotel dell’Enpam, la cassa di previdenza dei medici; Cvc vuole un pezzo del gruppo Tim; Carlyle (293 miliardi di dollari amministrati) ha messo le mani sulla Dainese, produttore di caschi e di abbigliamento tecnico per motociclisti e sciatori; Investcorp si rimpalla con Elliott una squadra di calcio quale il Milan.
Non a tutti piacciono, perché i fondi simboleggiano quel capitalismo anglosassone senza volto, distante, attento più ai risultati che alla tutela dei posti di lavoro. Ma non si può nasconderne l’utile ruolo nel riempire il vuoto lasciato da imprenditori senza capitali e nel rilanciare aziende altrimenti destinate al declino. Il loro lavoro consiste, in sintesi, nel raccogliere denaro da investitori istituzionali, come i fondi pensione, e da individui «affluenti», per acquistare partecipazioni in aziende con buone opportunità di crescita, quotate da sviluppare lontano dai riflettori della Borsa.
Le società di private equity operano con orizzonti di investimento a lungo termine, in genere da cinque a sette anni, per poi cedere la loro partecipazione o quotare l’impresa in borsa e incassare la plusvalenza. Al di là dei giudizi, sta di fatto che questa attività sta godendo di un successo straordinario: a livello mondiale, recita l’ultimo rapporto realizzato dalla società di consulenza McKinsey, gli attivi in gestione dei fondi private sono cresciuti lo scorso anno al massimo storico di 9.800 miliardi di dollari.
Le prime cinque società del settore gestiscono un patrimonio complessivo di 1.850 miliardi, cifra smisurata che si avvicina da sola agli abbondanti risparmi di tutti gli italiani (1.900 miliardi di dollari). Secondo un report di un’altra casa di consulenza, la Bain, l’industria del private capital sta macinando record su record: nel 2021 ha effettuato investimenti per 1.100 miliardi di dollari, frantumando il primato di 804 miliardi stabilito nel 2006. «Stiamo assistendo a un’accelerazione senza precedenti» conferma Nicolò Micioscia, Head del private market della società svizzera di investimenti Decalia, «e le masse amministrate potrebbero addirittura triplicare nel giro dei prossimi 10 anni».
In Italia nel 2021 «il valore totale dei deal si è attestato a 30 miliardi di dollari, con un incremento del 75 per cento rispetto al 2020» ha rivelato Roberto Fiorello, responsabile italiano private equity di Bain. Parlando in un convegno tenutosi a fine marzo, Francesco Giordano, private equity leader di Pwc Italia, ha reso noto che «il totale degli investimenti registrati lo scorso anno è arrivato a livelli record mai riscontrati in precedenza. Le aziende italiane continuano ad attrarre l’interesse dei grandi operatori internazionali che rafforzano sempre più la loro presenza nel nostro Paese e spesso contribuiscono in maniera decisiva alla crescita di eccellenze nazionali sui mercati globali».
La massa di denaro che affluisce nelle casse delle società di fondi private le spinge a moltiplicare i prodotti destinati a nuovi settori: dalle infrastrutture alle nuove tecnologie, dalle telecomunicazioni alle rinnovabili e alle farmacie. Il rapporto di Bain ricorda il caso di Antin Infrastructure Partners IV che ha speso circa 700 milioni di dollari nel 2021 per acquisire Hippocrates Holding, una catena di farmacie in Italia. Mentre Macquarie Asia Infrastructure Fund 2 ha acquisito AirTrunk, un’azienda che sviluppa e gestisce data center su larga scala in tutta la regione Asia-Pacifico.
Ci sono fondi specializzati nel software, nell’assistenza sanitaria, nel fintech, ma anche nelle produzioni di Hollywood e nel calcio. Decalia invece esplora terreni meno battuti, come offrire credito strategico per la crescita a imprese familiari di media grandezza o ad aziende tecnologiche tra i cui azionisti figurano fondi di venture capital.
A spingere il settore sono vari fattori. C’è un’enorme liquidità in cerca di rendimenti, resa ancora più abbondante dagli stimoli legati al Covid. C’è una regolamentazione meno restrittiva, come dimostra il caso italiano. E ci sono soprattutto le ottime performance messe a segno dai gestori: l’indice Morningstar Pitchbook relativo al private equity ha guadagnato circa il 57 per cento in euro nel 2021, contro il più 28,7% delle borse dei mercati sviluppati. Investire nei fondi private richiede pazienza, ma rende.
Ed è un modo per approfittare di una nuova tendenza: entrare in un’azienda prima che si quoti. «Oggi le società restano private più a lungo che in passato» spiega Micioscia. «Prima una start up americana entrava in borsa in media a quattro anni dalla nascita, oggi ne aspetta 11. Inoltre negli ultimi dieci anni il numero di società non quotate con oltre 500 dipendenti è salito più del 10% mentre il numero di società quotate nei mercati occidentali sono scese del 25%. Il risultato è che c’è molta più crescita su cui investire fuori dai mercati azionari».
Oggi un risparmiatore che vuole partecipare al grande party assieme agli uomini che dominano la finanza mondiale ha davanti a sé tre possibilità: acquistare un’azione delle società di private capital quotate, come Apollo Global Management, Blackstone, Carlyle, Kkr e forse presto anche la britannica Cvc. Ma il problema è che così l’investimento si disperde su centinaia di prodotti diversi gestiti dalla singola società. Oppure, può comprare una quota di un fondo, superando la complessità della sottoscrizione e preparandosi ad aspettare una decina di anni. O, ancora, può investire in un «fondo di fondi», che richiede tempi ancora più lunghi.
E poi, come succede nelle feste, non sempre si incontrano le persone giuste: ci sono fondi di private equity che in 10 anni hanno reso il 30% all’anno e altri che non hanno dato più del 10%. La variabilità tra un fondo e l’altro è enorme. Ma per chi se lo può permettere, il gioco vale la candela.