Come ha sottolineato il governatore della Banca d’Italia, occorre un nuovo contratto sociale. Per evitare l’aumento delle diseguaglianze e l’ampliamento dei divari sociali.
La relazione del Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco prima e le interviste concesse in questi giorni dal nuovo Presidente di Confindustria Carlo Bonomi hanno riportato l’attenzione sui numeri «sociali» della crisi.
Inizia a essere più preciso il possibile impatto sull’occupazione: in termini di posti di lavoro persi potrebbe raggiungere la quota di un milione, in termini di ore di lavoro circa 2 milioni. Numeri pesanti per il Paese che ci porterebbero indietro oltre la crisi del 2008-2009. Certamente nulla a che vedere con gli Stati Uniti, ma un impatto poderoso che non farebbe altro che aumentare le diseguaglianze e ampliare i divari sociali.
Chiarissimo è stato su questo punto il Governatore della Banca d’Italia richiamando sulla necessità di un nuovo patto o contratto sociale e sottolineando – tema a lui caro – anche il fatto di un capitale umano che uscirà da questa crisi molto impoverito. L’effetto education della crisi lo valuteremo solo tra qualche anno, ma se è vero che la crisi del 2008-2009 ha prodotto degli effetti negativi sulla qualità di questo fattore e sulle prospettive occupazionali relative, ciò che potrebbe accadere ora appare molto più strutturale.
Per questo occorre un nuovo piano sulle competenze (skills strategy) alla stregua di quello che venne pensato – Italia per prima – nel 2016 e poi non venne attuato, come è spesso purtroppo nelle nostre abitudini. Il possibile Recovery Plan dell’Italia dovrebbe avere questa come riforma strutturale primaria, assieme a quella della Pubblica Amministrazione. Altrettanto evidente è il legame tra caduta dell’attività economica e lavoro.
Le stime di cui abbiamo parlato non sono confortanti e rischiano anche di non essere conclusive. Tutto dipenderà da quando il Paese saprà fare ripartire la macchina produttiva. Un periodo prolungato di fermo o di rallentata attività, peraltro, si rifletterà sui periodi di cassa integrazione e sulle risorse necessarie, che non sono infinite. Anche se ci soccorrerà il nuovo strumento europeo contro la disoccupazione (SURE), occorre riflettere su come fare evolvere lo strumento della cassa, che per sua natura è uno strumento temporaneo e per numeri limitati di lavoratori.
Se entrano in crisi interi settori produttivi (alcuni dei quali forse in maniera definitiva) quello strumento non ci permette più di affrontare la situazione. Non vi è da ridiscutere lo strumento, dunque, come alcuni stanno già provando a fare ma di creare un nuovo strumento che solleciti il passaggio da politiche passive a politiche attive in un arco temporale più lungo.
Non ci soccorre certamente la disastrosa esperienza dell’assegno di ricollocazione e neppure la vagheggiata politica della riduzione del tempo di lavoro, né tantomeno l’estesa distribuzione di sussidi. L’obiettivo rimane una società attiva e con alto livello di occupazione, in cui il lavoro e non l’assistenza è il pilastro fondamentale. D’altra parte è sempre opportuno ricordare che senza un alto livello di occupazione a soffrire è il bilancio pubblico, il sistema di welfare, sanità e previdenza in testa.
Il cappio al collo sul futuro delle nuove generazioni si stringerà e non è certamente immaginabile ipotizzare un aumento vertiginoso della pressione fiscale. Il sistema non reggerebbe più e l’Italia precipiterebbe in un abisso sconosciuto. Dunque, la nuova equazione per il Paese, al fine di utilizzare i 172 miliardi del Recovery Plan – se saranno questi – e anche quelli tutti che arriveranno dagli altri strumenti di aiuto, deve ripartire da impresa e lavoro: combinando i due fattori avremo sviluppo e benessere.
Per questa ragione, e per evitare una bolla di disoccupazione tornando al triste fenomeno della disoccupazione di lunga durata, strumenti innovativi che sostengano il salario, aiutino le competenze, permettano alle imprese di ristrutturarsi senza perdere capitale umano, non aggravino il bilancio statale sono essenziali. In altri Paesi il dibattito è già iniziato, il governo ha avanzato le prime proposte alle parti sociali. Come nel 1992, è tempo per un salto strutturale del Paese e per una comune convergenza di obiettivi tra tutti gli attori politici e sociali, una convergenza fatta di reciproci trade off, perché questa è la natura degli accordi «veri», quelli che hanno cambiato l’Italia.
