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Da dove deve partire la difesa dei prodotti Dop

Da dove deve partire la difesa dei prodotti Dop

In Italia ci sono oltre 300 specificità agricole per un fatturato di quasi nove miliardi di euro. Grazie a queste si sviluppano luoghi e attività imprenditoriali. Un sistema che ora però, a causa di normative miopi, corre dei rischi.


Chissà se qualcuno impaurito dall’intelligenza artificiale si darà la pena di rileggere un economista grande quanto «eretico», il fiorentino Giacomo Beccatini. La sua lezione sui distretti, sulla fabbrica e l’economia diffusa si riassume in questa affermazione: «Intimo è bello, bisogna andare verso la coralità produttiva dei luoghi». C’è oggi un settore – l’agroalimentare – che dà alla competitività dei luoghi la massima importanza ed è forse lo strumento per salvare dalla desertificazione i borghi, i piccoli centri. In 5.500 comuni – il 70 per cento dei municipi – vivono 9,6 milioni d’italiani (circa il 16 per cento della popolazione) e detengono una straordinaria «ricchezza» frutto delle loro abilità, dell’agricoltura di prossimità e che è moltiplicata dal valore dei territori: i prodotti Dop, «denominazione di origine protetta» Igp, «Indicazione geografica protetta» e Sgt «specialità tradizionale garantita».

Da uno studio Coldiretti-Fondazione Symbola emerge che il 94 per cento dei prodotti con queste definizioni si fa, e trova la sua origine, nei piccoli comuni. I numeri sono straordinari: i prodotti a marchio «europeo» in Italia sono 326 (174 Dop, 148 Igp, 4 Stg) e muovono un’economia poco al di sotto dei nove miliardi di euro. A questi si aggiungono 529 vini fra Docg, Doc e Igt che si ottengono al 98 per cento in comuni al di sotto dei cinquemila abitanti per un valore di 11,5 miliardi di euro cui oltre il 70 per cento deriva dall’esportazione. Tutto questo fa dell’Italia di gran lunga il primo Paese a livello continentale per produzioni a marchio. Ma – ecco un paradosso – l’Europa che garantisce la qualità col sistema dei marchi territoriali è la stessa che punta al gigantismo produttivo, che considera l’agricoltura nemica dell’ambiente, che ha dell’ecologia un’idea di «rinaturalizzazione», che significa in sostanza lasciare che il selvatico faccia il suo corso.

Nelle cosiddette Bcaa – le Buone condizioni agronomiche ambientali -, che sono le norme a cui il contadino deve sottostare se vuole ottenere i contributi della politica agricola comunitaria, si dice che almeno il 4 per cento della superficie dev’essere «non coltivata» e che si deve curare il mantenimento degli elementi caratteristici del paesaggio. Questo obiettivo di raggiunge con il divieto di potare siepi e alberi nella stagione della riproduzione e della nidificazione degli uccelli, lasciando gli argini senza manutenzione, non potando le piante tenendo incolti i pascoli che non possono essere riconvertiti a seminativo. In Italia dove la proprietà fondiaria resta molto frazionata – lo storico Emilio Sereni definì la nostra «un’agricoltura arrampicata», in verticale rispetto all’orizzontalità dei pascoli del Nord – la qualità nasce dall’intimità dei diversi attori del territorio che collaborano alla messa in valore dei borghi, delle campagne dei paesaggi rurali. E, seguendo le prescrizioni europee, si renderebbero di fatto impossibili le produzioni Dop e Igp.

Da questa contraddizione, secondo Coldiretti e Symbola, si può uscire con i valori contenuti nello slogan «piccolo è buono». Dove per buono s’intende che Dop non è solo il prodotto, ma anche la comunità, il borgo, il paese. Ciò spiega anche il boom del turismo «goloso» a caccia dei luoghi nascosti. Come Caprese Michelangelo, nell’Aretino, che ha dato i natali a Buonarroti (la gipsoteca ospitata nella casa natale del genio della Cappella Sistina è un museo di eccelso valore) e dove il Marrone Dop è forse la castagna più buona del mondo ed ha generato un’economia capace di trattenere i giovani che curano i boschi, inventano nuovi prodotti come il liquore alla castagna, recuperano antichi costumi gastronomici quale il pane ottenuto con questo frutto del bosco.

Un esempio ormai diventato archetipo è il borgo abruzzese di Santo Stefano di Sessanio, dove albergo diffuso, lenticchia, formaggi e Appenino hanno fatto nascere un turismo d’élite. La teoria dei formaggi che ridanno fiato a greggi, mandrie e borghi è infinita: dall’ancora abruzzese Pecorino di Farindola (il solo a caglio di maiale e che dev’essere lavorato solo da mani femminili) passando per il valtellinese Bitto Storico Ribelle, che a Gerola Alta sulle Orobie ha dato origine a un nuovo presidio antropico. Ancora: c’è il sardo Cazu de Crabittu, il formaggio più antico del mondo (si vende a 500 euro al chilo), che trionfa nell’Ogliastra; oppure il Parmigiano Reggiano che, con il Consorzio Vacche Rosse, ha ridato fiato alla produzione a Pietra di Bismantova, sull’Appennino emiliano.

Analogo discorso vale per salumi, pani, verdure dell’orto. L’attrattiva territorio-prodotto con il «turismo del vino» genera tre miliardi di euro, con le Dop non meno di due. E funzionano 25 mila agriturismi che fatturano circa 800 milioni di euro, forti del fatto che quasi la metà del nostro patrimonio artistico-monumentale si trova in aree rurali. Piccolo è davvero buono. In tutte le sue varianti.

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