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Non sparate sull’impresa che scappa

Non sparate sull’impresa che scappa

Siamo alla vigilia di un piano del governo per scoraggiare le «delocalizzazioni» all’estero. Ma a parte recenti e gravi episodi di licenziamento che ledono dignità e diritti dei lavoratori, vanno anche considerate le esigenze che spingono un’azienda a spostare le proprie produzioni. E il mix di burocrazia e tasse dell’Italia di certo non aiuta.


L’arrabbiatura è comprensibile e giustificabile. Hanno incassato milioni in sussidi pubblici e ora alcune aziende a capitale estero decidono improvvisamente di chiudere una fabbrica e di lasciare a casa centinaia di lavoratori, informandoli con una mail o con un messaggino sul telefono. Ci sono famiglie che vedono sgretolarsi la loro vita. I sindacati sventolano le bandiere davanti ai cancelli e celebrano l’ennesima sconfitta, i giornali se la prendono con le multinazionali «che puntano solo al profitto» e il governo, per evitare l’accusa di lavarsi le mani, pensa a un provvedimento per rendere più difficile la delocalizzazione: qualcosa si deve pur fare per placare l’indignazione generale.

Ma, come direbbe un medico, così si cura il sintomo e non la malattia. Che anzi si aggrava, perché appesantire le procedure che un’azienda deve affrontare quando chiude uno stabilimento, come vuole il ministro del Lavoro Andrea Orlando, rischia di allontanare chi vorrebbe investire in Italia. Commenta così l’Istituto Bruno Leoni l’intenzione del governo di varare una norma contro le delocalizzazioni: «Nessuna azienda prende a cuor leggero la decisione di chiudere uno stabilimento. Lo fa quando non ci sono più le condizioni per generare un utile o, almeno, per evitare una perdita. Quando arrivano a quel punto, le imprese hanno solitamente già esplorato ogni strada per valorizzare il sito, rendendolo più produttivo, cambiando processi o prodotti, al limite cercando qualcuno che se ne faccia carico. Chiudere implica costi economici e reputazionali: chi lo fa, vi è costretto». Un esempio: due anni fa l’Unilever annunciò l’intenzione di spostare la produzione del dado Knorr in Portogallo con il conseguente licenziamento di decine di lavoratori in Veneto, ma poi grazie alla collaborazione con Regione e sindacati la multinazionale ha trovato un partner italiano e lo stabilimento ha riconquistato un futuro.

Se poi l’azienda che delocalizza ha incassato sussidi pubblici, occorre verificare, come già succede, se gli accordi prevedevano obblighi produttivi o di mantenimento occupazionale, e quindi imporre le sanzioni previste per chi non li rispetta. Ma aggiungere retroattivamente nuove misure punitive non avrebbe senso. «Le delocalizzazioni sono frutto della fisiologica attività di “entry-exit” delle imprese in ogni Paese» rileva l’Istituto Leoni. «La politica italiana è tutta focalizzata sull’exit e ignora l’entry. Anzi, non si rende conto che ipotizzare sanzioni e ostacolare a libertà delle imprese finisce per scoraggiare nuovi investimenti: si tratta di una specie di super-articolo 18 applicato al capitale anziché al lavoro».

Questo non vuol dire che certi comportamenti brutali non vadano denunciati e stigmatizzati, come comunicare un licenziamento con una semplice mail. Hanno giustamente scritto su Panorama Paolo Del Debbio e Mario Giordano che i lavoratori non sono macchine, va tutelata la loro dignità. E la loro sicurezza. Ci sono imprenditori, soprattutto italiani, che sfruttano i collaboratori, che pagano poco e che, per aumentare i guadagni, violano le norme. E i dipendenti ci rimettono la pelle. Vanno puniti.

Ma prendersela genericamente con le multinazionali non porta lontano. La Whirlpool, ora sotto accusa per la chiusura dello stabilimento di Napoli, ha annunciato questa decisione anni fa, mantenendo comunque il quartier generale europeo in Italia e investendo 250 milioni nel triennio 2019-2021 negli altri impianti della Penisola. Nel caso della Gkn, multinazionale che ha chiuso una fabbrica nei pressi di Firenze, l’azienda sostiene che «il sito in oggetto presentava un sovraccapacità produttiva molto marcata e un aggravio dei costi di funzionamento che ha impattato sull’organizzazione dell’intero gruppo».

La Gianetti Ruote posseduta dal fondo Quantum Capital Partners dice che «la chiusura di uno stabilimento non risanabile (in perdita da 10 anni, ndr) permette di salvaguardarne un altro, unitamente ai suoi 170 dipendenti, il cui modello di business funziona e produce utili» e che non sono stati individuati investitori strategici e credibili, ossia con una solidità finanziaria tale da assicurare la continuità aziendale.

Tutte decisioni da censurare? Tutte multinazionali «cattive»? E che cosa dire allora del gruppo Fca, ora Stellantis, che progressivamente ha fatto scivolare l’Italia al settimo posto tra i produttori di auto in Europa e ha spostato in Polonia, nello stabilimento di Tychy, un bel pezzo della sua produzione?

Forse dovremmo chiederci se davvero stiamo creando le condizioni più favorevoli per fare business nel nostro Paese, caricando di tasse e procedure burocratiche le imprese, invece di accanirci contro chi chiude uno stabilimento che non sta in piedi. O contro chi, come ArcelorMittal, ha tentato di risanare l’ex Ilva in un ambiente a dir poco ostile. Eppure è evidente che accogliere le multinazionali farebbe bene all’economia e all’occupazione: ora le società a capitale estero presenti in Italia sono circa 15 mila e, come rivela un’indagine della Confindustria, pur rappresentando solo lo 0,3 per cento del totale delle imprese residenti entro i nostri confini, danno lavoro all’otto per cento degli occupati, generano il 18,5 per cento del fatturato e finanziano ben il 22,4 per cento della spesa privata in ricerca e sviluppo.

Per ogni euro investito dalle grandi imprese estere si determina nell’intera economia una crescita complessiva della produzione industriale di circa 3,3 euro, considerando effetti indiretti e indotti. Uno studio di Prometeia mostra i vantaggi per un’azienda italiana di finire nelle mani di un gruppo straniero: «Divenute parte di gruppi multinazionali le imprese sono mediamente cresciute sul fronte delle vendite, per esempio servendo nuovi mercati e sono più produttive, spesso adottando migliori sistemi di organizzazione del lavoro. Soprattutto il passaggio al controllo estero non ha affatto penalizzato la dimensione occupazionale. Al contrario nuovi capitali e guadagni di quota di mercato (impliciti in un fatturato che cresce più dei concorrenti) hanno consentito di aumentare il numero di lavoratori impiegati e quindi migliorato il rapporto dell’impresa con il territorio d’insediamento».

Il problema è che l’Italia è ancora poco attraente per gli investimenti esteri: siamo in coda nell’economia europea dopo Germania, Francia, Regno Unito e le ragioni sono sempre le stesse. Nella graduatoria «Doing business» della Banca Mondiale il nostro Paese è al 58° posto su 190 nazioni, dopo Romania, Kenya e Kosovo.

Tra i principali ostacoli che deve affrontare una media azienda ci sono le difficoltà a ottenere credito, tasse e contributi elevati (pari al 59,1 per cento dei profitti, in Europa solo la Francia ci batte), la lentezza della giustizia, la burocrazia. Il 22 giugno scorso la società di consulenza Ey ha reso noti i risultati di un sondaggio sull’attrattività dell’Italia condotto su oltre 550 manager a livello globale: tra le criticità evidenziate dagli investitori esteri c’è l’incertezza a livello di regolamentazione, indicata dal 58 per cento degli intervistati, seguita dall’eccessivo carico burocratico (55 per cento) e dalle tasse elevate (29).

I dirigenti delle multinazionali suggeriscono poi di supportare le piccole e medie imprese e di ridurre il costo del lavoro per dare una spinta decisiva alla competitività italiana.

C’è da dire che con i soldi dell’Europa e con il Piano di ripresa e resilienza il Paese sta mettendo in cantiere le riforme che dovrebbero eliminare alcuni di questi ostacoli (giustizia e fisco in prima fila) e farci risalire nelle classifiche internazionali dell’attrattività. Tanto è vero che nel 2020 il numero di iniziative degli investimenti diretti esteri è cresciuto di 5 punti percentuali rispetto all’anno precedente e il 48 per cento dei manager stranieri intervistati da Ey si dichiara pronto ad allargare le proprie attività in Italia. È l’effetto-Pnrr. E speriamo che funzioni.

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