Il 2 aprile scorso Donald Trump ha annunciato quello che ha definito il “giorno della liberazione” degli Stati Uniti, comunicando l’introduzione di un dazio del 10% su tutte le importazioni nel Paese.
A tale importo si sarebbero dovuti sommare dazi “reciproci” aggiuntivi, calcolati caso per caso in base allo squilibrio commerciale – saldo tra importazioni ed esportazioni – con ciascun Paese o area economica.
La tariffa del 10% è effettivamente entrata in vigore il 5 aprile, anche se con alcune esenzioni.
Gli importi aggiuntivi sono stati inizialmente sospesi per 90 giorni – fino a fine giugno – e successivamente risospesi per un ulteriore mese.
Per quanto riguarda l’Europa, il dazio addizionale era stato annunciato nella misura del 20%. Tale importo, nella valutazione americana, non corrispondeva però al livello reale delle tariffe che l’Europa applicherebbe agli Stati Uniti, stimato intorno al 39%.
Inoltre, secondo Trump, in Europa ci sono moltissime regole che rendono molto difficile, se non impossibile, agli imprenditori americani vendere le loro merci qui da noi. Si tratta, in realtà, di quelle stesse regole che rendono molto difficile per gli imprenditori europei investire e produrre.
Il livello del 39% è molto diverso da quello che le autorità europee ritengono di applicare agli USA, pari all’1% in media.
L’Europa applica infatti dazi che possono arrivare fino al 52% su alcune merci industriali, come parti meccaniche (es. valvole, raccordi, rubinetti industriali) e alcuni componenti elettronici (es. trasformatori elettrici), o al 16% nel settore agricolo, ad esempio su alcune carni suine.
Tuttavia, per molti prodotti la tariffa è nulla o molto bassa, il che spiega perché la media “pesata” risulterebbe molto inferiore al 39%.
Evidentemente i due mondi non si capiscono e alla fine Trump, con la lettera all’Europa del 12 luglio, sembra aver semplicemente confermato in pratica quanto aveva già annunciato per l’Europa lo scorso 2 aprile.
Nel frattempo, il dollaro si è indebolito rispetto all’euro di circa il 10%, anche a seguito delle aspettative di abbassamento dei tassi di interesse e dell’innalzamento delle spinte inflazionistiche negli USA, determinati dalle politiche annunciate e promosse dallo stesso Trump.
L’Italia ha un export diretto negli Stati Uniti tra i 60 e i 70 miliardi di euro, cui però va sommato l’export indiretto attraverso altri Paesi – ad esempio nell’industria metalmeccanica, nella quale molta componentistica prodotta in Italia arriva in realtà negli USA a bordo delle automobili e dei macchinari tedeschi.
La somma di tariffe al 30% e del deprezzamento del dollaro determinerebbe uno sbilanciamento dei fattori di costo pari a circa il 40%.
Se escludiamo alcuni settori di nicchia ad altissimo valore aggiunto, un valore del 40% è vicino, se non superiore, al margine di profitto che molte aziende esportatrici realizzano.
E’ vero che gli americani, per molti prodotti, non hanno ad oggi alternativa – né ragionevolmente le avranno almeno per alcuni anni – rispetto a quella di comprare dall’estero. E’ però anche vero che a questi livelli di sovrapprezzo i consumatori e le aziende americane probabilmente si riorienteranno, almeno in parte, verso prodotti di qualità inferiore o, più banalmente, rimanderanno acquisti e investimenti.
L’impatto, quindi, sarebbe severo per l’Italia – dell’ordine di almeno 10 miliardi di euro l’anno di mancato export, se non anche molto di più.
Che fare, quindi?
Per l’Europa, le opzioni si stanno drammaticamente riducendo e, a meno di ripensamenti dell’ultimo momento o ulteriori proroghe, bisognerà prepararsi all’impatto, e sarà forte.
Con dazi del 10–15% si sarebbe potuta ipotizzare una risposta moderata; con tariffe del 30–40%, lo spazio per non attivare contromisure generalizzate si assottiglia, e forse, purtroppo, si annulla.
Infatti, se l’Europa non introducesse misure reciproche significative in tutti quei settori industriali in cui i margini sono inferiori al 40% e per cui, comunque, la differenza di costo per produrre negli USA è limitata, agli esportatori europei converrebbe spostare la produzione negli Stati Uniti e servire da là, eventualmente, il mercato europeo – esattamente ciò che vuole Trump. Vediamo se l’Amministrazione americana, dopo aver agito in modo durissimo sulla immigrazione non qualificata, non deciderà al contrario di attirare attivamente personale e tecnici qualificati. Non dovremmo stupirci.
La battaglia, insomma, non si dovrà combattere solo nel settore finanziario o dei servizi, come alcuni ipotizzavano, ma anche direttamente nei settori dell’industria e dell’agricoltura, a pena di una dolorosa de-industrializzazione dell’Europa.
Il primo passo da fare è ridurre rapidamente i costi per fare impresa in Europa. Non si tratta solo di energia, rispetto alla quale siamo in un cul-de-sac, ma anche, e soprattutto, di burocrazia, che va contenuta radicalmente e drasticamente.
Le regole che impediscono agli esportatori americani di mandare in Europa i loro prodotti sono, in molti casi, le stesse che impediscono agli imprenditori europei di produrre e innovare.
Qui da noi molte normative prevedono che ogni nuovo investimento sia soggetto a procedure costose e lunghe, se non a volte incomprensibili. Il risultato è che pochissimi possono permettersi, o se la sentono, di investire.
Basterebbe consentire alle imprese di investire e produrre non con regole da Terzo mondo, come dicono alcuni, ma semplicemente con quelle che c’erano in Europa 10 o 20 anni fa.
Bisogna inoltre sperare che la Banca Centrale Europea sfrutti la indubbia credibilità guadagnata negli ultimi anni – dimostrando di saper contenere spinte inflazionistiche dopo il “whatever it takes” di Mario Draghi – per accelerare la discesa dei tassi di interesse in Europa.
Non è con sussidi diretti o piani di debito europeo – che necessariamente determineranno ulteriore burocrazia – che si gestirà questa situazione, ma proteggendo la nostra industria se necessario e consentendo a chi può di investire per produrre qui, da noi, e ora.
Altrimenti, la de-industrializzazione dell’Europa non seguirà un lento declino, come ha ipotizzato Mario Draghi, ma prenderà il ritmo di una crisi epocale.
