Un settore decisivo per l’economia in Italia è in dismissione. l’unico vero produttore investe all’estero e un importante indotto perde posti di lavoro.
Può un Paese, che vanta il secondo sistema manifatturiero d’Europa, fare a meno dell’auto? La domanda, pesante come un macigno, aleggia sul neonato «Tavolo di sviluppo Automotive» che muove i primi passi da mercoledì 6 dicembre. Promosso dal ministero delle Imprese e del Made in Italy insieme a Stellantis, le Regioni, i sindacati e l’associazione di settore Anfia, l’organismo si propone di «aumentare i livelli produttivi degli stabilimenti italiani, consolidare i centri di ingegneria e ricerca, investire su modelli innovativi, riqualificare le competenze dei lavoratori e sostenere la riconversione della componentistica».
Obiettivo: tornare a produrre un milione di auto all’anno a cui aggiungere i veicoli commerciali leggeri. La risposta alla domanda di esordio è dunque no, l’Italia non può fare a meno di una consistente produzione di vetture. Questo è l’impegno del governo. Ma al di là dei proclami e delle belle intenzioni, riuscire a invertire una drammatica tendenza che dura da anni e che ha portato il nostro Paese a diventare un nano dell’industria automobilistica mondiale, è molto difficile se non impossibile. Diamo qualche numero: lo scorso anno dagli stabilimenti Stellantis (ex Fca) sono uscite poco più di 486 mila autovetture, un quarto rispetto al milione e 900 mila fabbricate nel 1989. Siamo precipitati intorno al ventesimo posto al mondo tra i produttori di auto e in Europa ci superano perfino Slovacchia e Romania. Un po’ meglio la situazione nei furgoni: sempre nel 2022 abbiamo sfornato 234 mila van, al quarto posto in Europa dopo Spagna, Francia e Polonia.
Nella gara a chi produce più automobili si piazzano molto meglio di noi la Germania con 3,3 milioni di mezzi, la Spagna con 1,7 milioni, la Repubblica Ceca con 1,2 milioni, la Slovacchia con 970 mila vetture. La Francia, che ha costi del lavoro simili se non più alti dei nostri e non può contare su brand di lusso globali come Bmw o Mercedes, ha fatto uscire lo scorso anno dalle sue fabbriche 950 mila auto, quasi il doppio di noi. Il risultato è che in Italia la forza lavoro impegnata nel settore si è assottigliata sempre di più: oggi gli occupati diretti nella nostra industria automobilistica sono solo il 4,6 per cento dei dipendenti del settore manifatturiero, contro una media europea dell’8,3 per cento e contro l’11 per cento in Germania. E continuando a giocare con i numeri, scopriamo che, poiché in Italia le vendite si assesteranno a fine 2023, secondo le revisioni del Centro studi Promotor, a 1,6 milioni di veicoli, il rapporto tra le auto prodotte e quelle immatricolate è pari da noi al 30 per cento. Cioé, per ogni auto prodotta nel nostro Paese ne acquistiamo tre. In Germania, invece, la proporzione è del 124 per cento, il che significa che ogni 100 vetture immatricolate i tedeschi ne producono ben 124. In Francia la proporzione è di 6,2 auto prodotte in loco ogni 10 comprate. In pratica, tra le grandi nazioni europee siamo quella che deve importare più automobili.
Sul perché l’Italia si sia ridotta così si sono accumulate le ipotesi. La più accreditata vede sul banco degli imputati la famiglia Agnelli che, con la complicità di uno Stato debole e poco lungimirante, ha dominato incontrastata e senza concorrenza la produzione nazionale, dedicandole attenzioni distratte e pochi fondi. Caso praticamente unico in Europa, dove quasi in ogni Paese produttore ci sono due o più case nazionali, oppure svariati stabilimenti di gruppi in competizione l’uno con l’altro, come in Spagna. A questo annoso problema si aggiungono le oggettive difficoltà dell’Italia ad attirare marchi stranieri, intimoriti da burocrazia complessa, giustizia lenta, legislazione ballerina e costi dell’energia elevati. Tanto è vero che per ora né Tesla, né alcun gruppo cinese si sono fatti avanti per realizzare una fabbrica di veicoli o di batterie lungo la penisola. Adesso Carlos Tavares, amministratore delegato di Stellantis, John Elkann, presidente e socio di maggioranza del gruppo attraverso Exor, promettono di rilanciare la produzione italiana (in crescita nel 2023 del 10 per cento) ponendo però delle condizioni: misure di sostegno per i veicoli elettrici «perché questo ci consentirebbe di produrre più Fiat 500 elettriche a Mirafiori, noi siamo pronti a realizzarne di più» ha detto Tavares. E poi, per fronteggiare la concorrenza asiatica «bisogna abbassare i costi come quelli della manodopera e dell’energia». Insomma, si batte cassa come al solito. Nel frattempo la nuova Topolino viene costruita in Marocco, la 600e in Polonia mentre la gigafactory che prenderà il posto dello stabilimento di Termoli entrerà in funzione a pieno regime solo nel 2029.
Alle spalle di Stellantis c’è l’industria della componentistica, la seconda per dimensioni in Europa, dopo la Germania. Un settore in gran parte di medie aziende, che si trovano strette in una morsa: da un lato il declino degli stabilimenti Stellantis, dall’altro la transizione verso l’elettrico. Si tratta di una galassia formata da 2.167 imprese con circa 167 mila addetti e un fatturato totale stimato in 55,9 miliardi di euro. Secondo le analisi dell’associazione Anfia che rappresenta il settore dell’automotive, le imprese stanno resistendo alla doppia sfida, sganciandosi sempre di più da Stellantis e cercando di riconvertirsi all’elettrico. Secondo un sondaggio Anfia la quota di aziende che ha dichiarato di avere Stellantis o Iveco nel proprio portafoglio clienti è scesa tra il 2021 e il 2022 dal 72,9 al 68,4 per cento. Il problema è che ancora il 73,4 per cento delle imprese si posiziona in misura decisa sul mercato dei veicoli dei motori benzina e diesel mentre il 35,4 per cento su mezzi con motori e trasmissioni elettrici ed ibridi. I casi di sofferenza sono numerosi. Dopo quello clamoroso della Gkn a Campi Bisenzio in Toscana, con la chiusura dell’impianto di semiassi e la perdita del lavoro di oltre 400 persone a cause del calo della produzione Stellantis, si è aperto in Emilia il braccio di ferro con la Marelli.
La società produce sistemi ad alta tecnologia per l’industria automobilistica e fu ceduta nel 2019 per oltre 6 miliardi di euro da Mike Manley, allora amministratore delegato di Fca, alla giapponese Ck Holdings che fa capo a Kkr, il fondo americano in corsa per la rete di Tim. La Marelli ha deciso di chiudere l’impianto di Crevalcore in Emilia-Romagna per trasferire una parte della produzione in un’altra fabbrica, a Bari, e per esternalizzare il resto. Il licenziamento riguarda 220 lavoratori e i sindacati dei metalmeccanici hanno già avuto due incontri a livello nazionale e tre a livello locale ottenendo la sospensione della procedura. L’azienda comunque non intende tornare sui suoi passi lamentando costi troppo elevati per far proseguire le produzioni di quello stabilimento. Una storia che allunga delle ombre sull’operato della Fca, che vendette un’azienda strategica come Marelli per fare cassa: il solitamente pacato Ferruccio De Bortoli ha scritto sul Corriere della Sera di un’occasione svanita «per la bramosia a breve di azionisti miopi».
Un’altra vittima delle scelte di Stellantis è la Lear di Grugliasco (Torino) appartenente all’omonimo gruppo americano: i suoi sedili andavano esclusivamente alla casa italo-francese e prima ha perso la commessa per la 500 elettrica, vinta da una società turca, e poi ha visto calare le forniture per la Maserati, le cui vendite sono al lumicino. L’effetto è la probabile chiusura dello stabilimento con 360 posti di lavoro in serio pericolo. Un caso paradossale è poi quello della Industria italiana autobus: azienda a partecipazione pubblica, è ricca di commesse ma le mancano i fondi e la produzione langue. Il governo ha promesso l’arrivo di risorse fresche e la ricerca di un nuovo partner industriale. Una corsa, quella dei governi, a tamponare le situazioni di crisi che si moltiplicano senza fine. A differenza della Francia, non soltanto abbiamo dovuto accettare un unico produttore di auto, ma non c’è stata una vera politica industriale che, insieme ad aziende e sindacati, indicasse i settori su cui puntare e su cui investire. Magari facendo entrare lo Stato direttamente nel capitale. Ora tocca a Giorgia Meloni e al ministro Adolfo Urso raccogliere i cocci e cercare di rilanciare la produzione di auto e soprattutto rendere attraente l’Italia per gli investitori stranieri. Anche cinesi, se necessario.
