Improvviso è arrivato il gelo. La coperta è troppo corta. Per la prima volta in oltre mezzo secolo il rapporto Censis fotografa un’Italia senza speranza. È, purtroppo, il tempo del «ceto mesto». Scrive Giuseppe De Rita: «I meccanismi proiettivi, che spingevano le persone a fare sacrifici per essere migliori, adesso risultano inceppati e la società indulge alla malinconia». Si allungano le file davanti alle mense caritatevoli. A Milano, in corso Concordia, in viale Toscana, al Refettorio Ambrosiano c’è una folla attonita e indigente. Vengono serviti circa 7 mila pasti tra pranzo e cena, il 20 per cento in più di un anno fa. Pane Quotidiano distribuisce circa 2 mila pacchi alimentari ogni giorno, la Caritas ha pagato almeno 5 mila bollette energetiche. I volontari delle opere dicono con tristezza: vediamo persone che prima non erano mai venute. Sono genitori separati, sono la risacca del Covid, sono quelli che un tempo erano ceto medio. Vanno a chiedere aiuto dalla terza settimana, che è ormai il limite invalicabile per troppi. Cantava Lucio Dalla quarant’anni fa: «Milano vicino all’Europa, Milano che banche, che cambi, Milano che ride e si diverte». Il 14 ottobre del 1980 Luigi Arisio a Torino si mise alla testa dei quadri Fiat: la marcia dei 40 mila. Erano i colletti bianchi, arrabbiati ed esausti per una vertenza che la Cgil ed Enrico Berlinguer dal Pci stavano conducendo da oltre un mese. Cominciarono a gridare: «Il lavoro si difende lavorando».
Per la prima volta la maggioranza silenziosa era scesa in piazza, aveva smesso di tacere. Era il ceto medio per definizione, sperava per i figli nell’ascensore sociale. Oggi non ha più neppure la «scala mobile», per riuscire a star dietro all’inflazione, abolita nel 1985 con un referendum. È diventata maggioranza «bisognosa». È forse paradigmatico ricordarsi che Partito comunista e Movimento sociale stavano dalla stessa parte a difesa dell’automatico adeguamento dei salari. Persero e da Davos, dove si è riunita come al solito l’élite mondiale per ragionare di economia, si rilancia: guai ad attivare la spirale delle paghe che inseguono i prezzi. E non si dispensa ottimismo: nel 2023 una recessione – leggera o meno, si vedrà – è «estremamente probabile».
Intanto la Banca centrale europea continuerà ad alzare i tassi di interesse, incurante se questo deprime la domanda, se i mutui delle case diventano insostenibili, se all’orizzonte si profila una recessione profondissima che sarebbe la quarta piaga in tre anni dopo la pandemia, la guerra, la crisi energetica che rischia di produrre in Europa, e in Italia in particolare, milioni di nuovi poveri.
Isabel Schnabel, che ha commissariato su mandato della Bundesbank la presidente Christine Lagarde nel board della Bce, fa sapere che la Banca persegue un suo progetto: ridurre l’inflazione con i tassi alti ma anche affievolire la crescita per salvare l’ambiente. È lo stesso paravento dietro cui si nasconde la più ampia espropriazione di patrimonio mai fatta: quella delle case che devono adeguarsi agli standard ambientali. In Italia è la decrescita infelice. Si deve partire da Milano, un tempo la Mecca del ceto medio. Ha perso drasticamente punti nelle classifiche tra le università a causa del carovita. Una stanza per uno studente oscilla tra 600 e 900 euro al mese. Nella classifica di QS Quacquarelli Symonds, analista globale della formazione universitaria e manageriale, il capoluogo lombardo è scivolato di 31 posizioni – ora è al 48°posto – proprio a causa del carovita, e tra le «matricole» c’è una sorta di sostituzione etnica: gli stranieri sono ormai il 20 per cento e uno su due di questi arriva o dall’Asia o dall’India.
Per i lavoratori la situazione non cambia: secondo le rilevazioni della Città Metropolitana, se causa Covid si sono persi 22 mila posti (il Pil di Milano è calato dell’11 per cento) nel post-pandemia ci sono 179 mila dimissioni volontarie (circa il 10 per cento della forza lavoro) perché non conviene lavorare in città. Una famiglia di quattro persone riesce a vivere se dispone di un reddito di almeno 3.500 euro al mese. Significa o due stipendi da 35 mila o uno da 70 mila lordi. In Italia dispone di un simile reddito soltanto il 4 per cento della popolazione. Mentre il Sindaco Giuseppe Sala si preoccupa del profilo ambientale, di far marciare la città a 30 chilometri all’ora, di sfrattare le auto, di spegnere le vetrine, la fu capitale morale d’Italia è diventata una città per soli ricchi dove chi è anziano bussa alla Caritas, chi è giovane deve fuggire. Moneyfarm ha fatto uno studio: sotto i 1.700 euro netti è impossibile resistere. Il termometro sono i prezzi delle case: la media è attorno ai 4.300 euro al metro quadrato, per acquistare un appartamento servono oltre 13 anni di uno stipendio medio. Grazie alla Bce oggi i mutui sono aumentati già del 3 per cento. A Firenze per comprare casa (sempre in periferia) occorrono più di 12 anni, così a Roma, a Venezia è impossibile, ma a Mestre ce ne vogliono nove, a Bologna otto e mezzo, a Napoli oltre sette e questa è la media in Italia.
Mikhail Maslennikov, policy advisor dell’organizzazione non profit Oxfam Italia, come sempre ha presentato nel giorno dell’apertura del World Economic Forum di Davos il rapporto sulla disuguaglianza. Riguardo all’Italia Oxfam scrive: «Alla fine del 2021 il 20 per cento più ricco degli italiani deteneva oltre i due terzi della ricchezza nazionale, il successivo 20 per cento era titolare del 17,5 per cento, lasciando al 60 per cento più povero appena il 14 per cento della ricchezza nazionale». Ma il dato più allarmante è che: «I redditi familiari da lavoro dipendente e autonomo sono diminuiti, su base annua, del 5 per cento e del 7,1 per cento rispettivamente, i redditi da trasferimenti sono invece cresciuti del 9,4 per cento grazie alle misure straordinarie di supporto al reddito in piena emergenza sanitaria». L’Istat, tuttavia, sostiene che «l’insieme delle politiche sulle famiglie abbia ridotto la diseguaglianza».
Ma questo insieme di politiche è fatto di bonus di sostegni, di una tantum perché in realtà il potere di acquisto degli italiani è diminuito. L’Istituto di statistica lo stima ridotto del 5 per cento. Per far fronte alle spese aumentate abbiamo intaccato i risparmi per 27 miliardi (il 2,3 per cento della ricchezza accumulata) mentre i prestiti personali, dati Abi, sono cresciuti del 4,1 per cento e sono 1.300 miliardi. In questo contesto i consumi alimentari sono calati del 6,3 per cento in volume, ma purtroppo saliti del 6,6 per cento in valore. Un altro rapporto, quello della Coop stilato in collaborazione con Nomisma, come illustra il presidente Marco Pedroni, sottolinea: «L’Italia si scopre un Paese più vulnerabile con la classe media sempre più in difficoltà, una parte che rimane indietro (24 milioni che nel 2022 hanno sperimentato almeno un disagio) e una netta crescita dell’area della povertà vera e propria (+6 milioni nell’ultimo anno). Per converso cresce il mercato del lusso. La forbice si divarica e in un futuro sospeso, che il 48 per cento dipinge come instabile e precario, ritorna il clima da austerity sia per le grandi spese (non si comprano le auto, né gli elettrodomestici, si rimanda a data a destinarsi l’acquisto della nuova casa) sia per le piccole rinunce al superfluo di tutti i giorni».
L’Istat evidenzia ancora che «le trasformazioni del mercato del lavoro hanno portato a una decisa diminuzione di quello standard; sono diminuiti i lavoratori dipendenti, sono raddoppiati quelli a tempo determinato, quelli indipendenti sono progressivamente scesi – da quasi un terzo degli occupati all’inizio degli anni Novanta a poco più di un quinto nel 2021 (circa 4,9 milioni) – per effetto del calo di imprenditori, lavoratori in proprio (agricoltori, artigiani, commercianti)». Federconsumatori, da parte sua, mette in rilievo che «il salario medio annuo lordo dei lavoratori italiani con 29.400 euro è uno tra i più bassi in Europa»; mentre Ettore Minniti, segretario della Confedercontribuenti evidenzia: «Cinque milioni di cittadini, con reddito superiore a 35 mila euro di reddito, versano il 60 per cento dell’Irpef ma sono solo il 13 per cento dei contribuenti. È quel ceto medio che si trova a far fronte al caro-bollette e alle dinamiche inflazionistiche».
Ma è disarmato di fronte a spese impreviste (solo il 39 per cento riesce a far fronte a mille euro non preventivate) e fa a meno delle cure mediche. Circa 4 milioni non si curano perché non hanno risorse, altri 2,5 milioni rinunciano per le attese troppo lunghe, e 600 mila persone non vanno dal dentista. In Italia – dove la sanità sarebbe gratis – c’è una spesa per curarsi di almeno 400 euro all’anno a testa. E questo è un ulteriore aggravio sui bilanci familiari. Secondo uno studio dell’Ipso, dopo la pandemia il «ceto medio è morto», per il Censis l’83,5 per cento di chi si ritiene ceto medio è convinto che perderà questa condizione. Per Maurizio Franzini, ordinario di Economia politica all’Università La Sapienza di Roma, il ceto medio è composto da chi ha un reddito che oscilla tra i 35 mila e i 60 mila euro annui. «Fino a una generazione fa» sottolinea lo studioso «la classe media costruiva la propria ricchezza attraverso l’accumulazione dei risparmi, oggi la quota prevalente della ricchezza è frutto di eredità. Nel nostro Paese, negli ultimi anni, è cresciuto il numero di quanti “scendono” nella classe media, andando a rimpiazzare quanti dalla classe media scivolano più in basso».
Non a caso il presidente del Consiglio Giorgia Meloni presentando la manovra di bilancio ha insistito: «Ci sono tre tasse piatte, abbiamo fatto scelte coraggiose con interventi rivolti al ceto medio, che non favoriscono i ricchi e riconoscono i sacrifici di chi lavora. In manovra c’è anche la decisione di rivalutare tutte le pensioni, ma con una percentuale diversa: le minime saranno rivalutate del 120 per cento». Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, che deve far tornare i conti tenendo a bada i parametri internazionali e dell’Unione, ha insistito molto sulla necessità di sostenere «le famiglie di fronte al caro bollette». Si è poi quasi lanciato in una polemica, per lui inusuale, quando volendo bloccare il superbonus edilizio ha rivendicato: «Con quelle risorse avremmo potuto tagliare il cuneo fiscale di 10 punti».
Eugenia Roccella, ministro per la Famiglia, la Natalità e le Pari opportunità, ha strappato l’assegno unico rivalutato non legato all’Isee – l’indicatore della situazione economica – e una nutrita serie di misure per il sostegno dei nuclei familiari, evidentemente convinta che esiste un’emergenza per il ceto medio e una ancor più acuta per le giovani coppie. Queste ultime si trovano a fronteggiare un’inflazione che non accenna a flettere in modo significativo (il tasso annuale è all’8,1 per cento, a dicembre è stato dell’11,6) con il caro carburante (la fine della moratoria sulle accise ha portato aumenti attorno ai 30 centesimi, Giorgetti è pronto a intervenire in caso di nuove impennate dei prezzi) e con la crescita delle rate dei mutui. Federconsumatori ha calcolato che l’inflazione vale 3.456 euro a famiglia cui vanno aggiunte circa 500 euro del carburante e non meno di 2 mila euro per il mutuo: 6 mila euro all’anno a fronte di salari che crescono del 3 per cento. A conti fatti mancano 3.800 euro. Risultato: consumi a picco e nessuna allegria.
I croati sono appena entrati nell’euro, ma già si pentono
Con l’adozione della moneta dell’Unione il Paese vede schizzare alle stelle i prezzi. Ma stipendi e pensioni non sono all’altezza dei rincari record.
Il primo gennaio scorso Ursula von der Leyen si è recata al confine croato-sloveno (Zagabria è entrata anche nell’area Schengen) per festeggiare, dopo 10 anni dall’adesione alla Ue, l’ingresso della Croazia nell’euro. Passano due settimana e nelle stradedi Zagabria come in quelle di Spalato i croati sono già pronti allo sciopero contro l’euro. Che cos’è successo? Ciò che gli italiani hanno imparato 21 anni fa. I prezzi, appena entrata in vigore la moneta unica, si sono impennati. Pane e burro hanno subìto aumenti del 30 per cento, la carne arriva al 15, i servizi dell’80 per cento e anche la Croazia registra un improvviso caro carburanti. Il ministro dell’economia Davor Filipovic ha fatto controlli a raffica senza esito. La Croazia registrava un’inflazione vicina al 13,5 per cento, ma il rapporto di causa effetto tra euro e aumento dei prezzi pare conclamato.
Al punto che il primo ministro Andreij Plenković minaccia pesanti sanzioni. Ma i listini sono fuori controllo. Per mezzo chilo di pasta almeno 1,85 euro, il riso quasi otto, la passata di pomodoro oltre tre euro. Esattamente il doppio rispetto all’Italia. Potenzialmente il cambio tra kune ed euro (fissato a 7,53 a uno) «vale» una inflazione del 25 per cento perché si tende a cambiare 10 a uno. Zagabria importa il 70 per cento del proprio fabbisogno alimentare e il primo fornitore è la Germania, che vende per 1,8 miliardi. La distribuzione – Konzum a parte – è in mano alle catene tedesche: Lidl, Bila, Kaufland, Metro. La vita per i croati ora è dura: lo stipendio medio è 800 euro, 300 la pensione. In Polonia il primo ministro Mateusz Morawiecki ha già colto il pericolo e ha detto riguardo alla moneta nazionale: «Il caos in Croazia è un monito per noi, teniamoci lo zloty per evitare la miseria».
