Nonostante lo stop di Pechino alla loro «estrazione», queste valute stanno crescendo in tutto mondo, soprattutto negli Stati Uniti. Ma in alcuni Paesi come la Gran Bretagna si teme che la crisi di questo sistema di pagamento possa innescare un default paragonabile a quello del 2008.
Misteriose migrazioni di «minatori» digitali. Fumose centrali a carbone del Kazakistan e azzurri scenari texani. Austeri funzionari della Bank of England, inflessibili membri del partito comunista più potente del mondo e un imprenditore sudafricano famoso per le auto elettriche e i viaggi spaziali. Al centro, una moneta creata da un hacker giapponese senza volto che forse non esiste neppure. E sullo sfondo, un grave pericolo che incombe sulla finanza globale.
Potrebbero essere gli ingredienti di un film dell’agente 007, con la differenza che si riferiscono a una storia drammaticamente vera. Protagoniste, l’avrete capito, sono le criptovalute e in particolare la più diffusa, il Bitcoin, la moneta virtuale creata nel 2009 da uno o più hacker con lo pseudonimo Satoshi Nakamoto, gestita da un diffuso network di computer e resa affidabile da un solido sistema crittografico che rende sicure le transazioni. Nelle ultime settimane il Bitcoin ha riconquistato l’attenzione della stampa in seguito a una serie di avvenimenti contraddittori che hanno provocato forti oscillazioni al suo valore.
Il primo di questi scossoni è partito dalla Banca centrale cinese: il 24 settembre a People’s Bank of China ha annunciato che tutte le transazioni effettuate con criptovalute nel Paese saranno considerate illegali. Secondo l’istituto centrale della Repubblica popolare, che ha emesso un comunicato congiunto assieme ad altri 11 enti governativi, la «speculazione tramite criptovalute sta «turbando l’ordine economico e finanziario e favorendo la crescita di attività illegali e criminali». Quindi stop a tutte le piattaforme internazionali sulle quali si trattano Bitcoin e alla produzione di criptovalute: un settimo della popolazione mondiale viene escluso dal mercato.
Questa è solo l’ultima di una serie di azioni intraprese dal governo di Pechino per stroncare gli scambi in Bitcoin, troppo deregolamentati per un regime che ama controllare tutto. Fino al 2020 la Cina era in assoluto la destinazione principale dei «miner» di Bitcoin, cioè dei potenti centri di calcolo che creano la valuta digitale: secondo il Cambridge Centre for alternative finance, un anno fa il Paese deteneva un hashrate (così viene definita la potenza di calcolo collettiva dei minatori della criptovaluta) del 67%. E questo rappresentava un grave problema per il sistema energetico e l’ambiente: i miner consumano infatti tantissima energia.
Secondo uno studio congiunto condotto dall’Accademia cinese delle scienze, dalla Tsinghua University, dalla Cornell University e dall’Università del Surrey, nel 2024 l’utilizzo di energia per l’estrazione di Bitcoin da parte della Cina avrebbe superato il consumo energetico totale dell’Italia o dell’Arabia Saudita, mettendo in pericolo gli obiettivi di riduzione delle emissioni annunciati da Pechino. Forse anche per questo la Cina ha dichiarato guerra alla criptovalute.
Da mesi, annusata l’aria, i minatori hanno iniziato a lasciare il Dragone dando vita a quella che è stata battezzata la «great mining migration». Il primo Paese a beneficiare di questa migrazione è stato il Kazakistan, grazie alla vicinanza con la Cina e alla disponibilità di energia a basso costo. Nel giro di pochi mesi l’ex repubblica sovietica è diventata il terzo produttore mondiale di Bitcoin. Ma è un primato che secondo gli esperti non durerà molto, visto che l’elettricità è per lo più prodotta in centrali a carbone molto inquinanti e che il governo kazako si appresta, nel 2022, ad aumentare le tasse sul crypto-mining.
Insomma, una situazione non facile per le monete virtuali. E infatti il giro di vite di Pechino ha avuto un impatto pesantissimo sulla quotazione del Bitcoin: dai 53.000 euro di aprile è precipitata 26.000 euro in luglio. Ma come l’Araba fenice, la moneta virtuale è risorta dalla ceneri e a metà ottobre la sua quotazione è tornata a viaggiare oltre i 53.000 euro. Merito soprattutto degli Stati Uniti, diventati la destinazione privilegiata dei minatori, dove le autorità hanno un atteggiamento non ostile verso le criptovalute. Rispetto al settembre 2020, il bitcoin hashrate degli Usa ha registrato un balzo del 428%.
È soprattutto il Texas ad attirare i miner digitali, grazie a una produzione elettrica basata su fonti rinnovabili come l’eolico. A dare man forte al rialzo del Bitcoin è stato anche Elon Musk, l’imprenditore della Tesla e di Space X, che ha riaperto la porta alla possibilità di acquistare con criptovalute le sue vetture elettriche a patto che le mining farm ricorrano a una energia pulita in misura non inferiore al 50%.
Un’altra spinta alla quotazione delle monete digitali è arrivata dalla Sec, la Consob americana, che ha approvato il primo Etf negoziato in Borsa basato sui futures Bitcoin, dando un imprimatur ufficiale ai strumenti legati alle criptovalute accessibili sia agli investitori privati sia istituzionali. Ma la tolleranza verso il Bitcoin può essere pericolosa? Il 13 ottobre sir Jon Cunliffe, vice governatore della Banca d’Inghilterra per la stabilità finanziaria, ha lanciato l’allarme paragonando il tasso di crescita delle criptovalute al boom dei mutui subprime che provocò l’ultimo grande shock mondiale: «Il valore delle critpovalute è passato dai 16 miliardi di dollari di cinque anni fa ai 2.300 miliardi di oggi» ha ricordato Cunliffe.
Un ammontare apparentemente modesto nel contesto del sistema finanziario globale che vale 250 mila miliardi di dollari: «Ma come la crisi finanziaria del 2008 ci ha mostrato, non c’è bisogno di rappresentare una grande parte del settore finanziario per innescare problemi di stabilità finanziaria, i subprime erano stati valutati circa 1.200 miliardi».
«Quando qualcosa nel sistema finanziario cresce molto velocemente e in uno spazio non regolamentato» ha aggiunto il vicepresidente della Bank of England «le autorità di stabilità finanziaria devono sedersi e prendere nota. Devono pensare molto attentamente a ciò che potrebbe accadere». E cosa succederebbe nel sistema finanziario se ci fosse un crollo del prezzo delle criptovalute? «Le perdite potrebbero essere trasmesse dalle criptovalute al settore finanziario esistente».
«Paragonare la crisi dei mutui subprime alla nascita e proliferazione delle criptovalute è improprio» ribatte Simon Peters, crypto market analyst di eToro, la piattaforma per il trading online più usata al mondo. «L’universo cripto si sta espandendo a velocità crescente con sempre più coin, token che continuano a venire alla luce. L’apertura della Sec a strumenti che abbiano alla base il Bitcoin dà un segnale importante in questo senso, legittimando il crescente ruolo dei cripto-asset in portafogli e offrendo maggiore tutela agli investitori». Ma solo una maggiore regolamentazione potrà salvare il Bitcoin dal rischio di un nuovo grande crack.
