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Come (e cosa) consumano gli italiani nell’età dell’incertezza

Come (e cosa) consumano gli italiani nell’età dell’incertezza

  • Consumi\1 La casa come àncora di salvezza. Acquisti che rassicurano ma non danno la spinta per la ripresa. Metamorfosi sociali, anche drammatiche, fino a ieri impensabili. La seconda ondata del Covid, raccontano statistiche e nuovi stili di vita, investe un Paese profondamente mutato. Alla ricerca di una fragile normalità.
  • Consumi\2 quelli che non si arrendono. Gli italiani che vanno avanti nonostante tutto cercando di guardare oltre la crisi.

Sarà per il distanziamento sociale, per la paura del contagio, ma gli italiani soffrono di sindrome della tana. La casa è una sorta di rifugio anti-virus, e il fatto che qualcuno pensi di nuovo di tassarla fa a pugni con la realtà. Attorno alla «cuccia» ormai gira la nostra vita, abbiamo cambiato stile e se gli assembramenti e le movide hanno meritato il pubblico ludibrio, in privato si sta come d’autunno sugli alberi le foglie, nascosti nella trincea sanificata. E i consigli per gli acquisti sono quelli di fare scorta.

Consumiamo cisterne di disinfettanti, siamo tornati a comprare farina, lievito di birra – è una sorta di indice della paura, se sparisce dal supermercato vuol dire che il contagio avanza – uova hanno fatto più 110 per cento ma anche surgelati, la carne in scatola, zucchero vanno forte.

Mangiamo meno dolci confezionati, abbiamo voltato le spalle ai succhi e alle bibite, e frutta e verdura fresca le compriamo confezionate. Anche il vino soffre: ha fatto, è vero, più 110 per cento online e più 29 per cento nei grandi magazzini, ma manca all’appello metà del fatturato e si scelgono vini di blasone inferiore.

Il mercato si polarizza tra chi può spendere (tra questi, ampio è il ricorso alla consegna a domicilio di piatti pronti: più 68 per cento) e chi cerca le occasioni, comunque made in Italy. Chi non ce la fa rinuncia alle cure mediche (si stima che in 12 milioni non se le possano permettere) all’abbigliamento e pure alle vacanze, visto il flop del bonus (lo hanno attivato in un milione, lo hanno speso in 500 mila). e, forse per compensazione, ci si riempie lo stomaco con la pasta.

Il virus cinese, effetto collaterale della globalizzazione, induce in chi consuma comportamenti bipolari. Tramontano gli slogan del politicamente corretto come il car sharing, la condivisione e tutto ciò che era predicato come «usare senza possedere». Più della moda può il contagio.

Questo segmento segna in Italia un meno 25 per cento. Non va meglio ai taxi che hanno accettato l’alleanza con i nemici storici degli Ncc (Noleggio con conducente) pur di tenere il mercato, crollato del 90 per cento soprattutto nelle città d’arte. Lo stesso vale per i bus turistici che ora tornano utili per aiutare nel trasporto scolastico. È il trionfo della mobilità individuale.

Il governo pensava di risolvere il problema con monopattini elettrici e bonus biciclette (ci sarà il click day il 3 novembre per tentare di accedere al rimborso di 500 euro) ma non è servito se non a incrementare il caos e i suoi rischi: a Milano, da giugno ad agosto gli incidenti in monopattino sono stati 103; in soli dieci giorni di settembre, con il ritorno in città, ben 34.

L’automobile torna protagonista del trasporto (il 71 per cento degli intervistati la userà di più, abbandonando il trasporto pubblico ritenuto dall’82 per cento non sicuro per i contagi), ma esaurita la spinta dei bonus solo 3 italiani su 10 annunciano che potrebbero acquistare una macchina nuova. Il virus sta mettendo in crisi anche – per utilizzare un’espressione di Marc Augé, l’antropologo francese critico della «surmodernità» – i «non luoghi» simbolo del consumismo, ossia gli ipermercati: se durante il primo confinamento hanno fatto boom, adesso scontano la concorrenza dei negozi di prossimità.

Secondo la società di consulenza Nomisma, la quota di clienti dei negozi alimentari è passata dal 40 al 54 per cento contro una contrazione degli utenti dei supermercati, scesi dal 67 al 48 per cento; in compenso l’on line ha acquistato il 14 per cento di nuovi clienti che, sommati al 16 di abituali compratori, porta l’e-commerce molto vicino alle quote di distribuzione «fisica». E la chiusura dei centri commerciali la dice lunga.

La Coop, il maggiore operatore della distribuzione moderna, nel suo consueto rapporto ha registrato una metamorfosi del consumatore. Nel suo «ritratto di famiglia in un carrello», che ha indagato anche le prospettive post-virus confermando che siamo i più pessimisti d’Europa, riscontra che nel Paese ci si aggrappa alla casa come unico rifugio. Sul fronte della spesa abbiamo scelto di mangiare più sano, non abbiamo ridotto di molto gli acquisti ma, in barba alla plastic tax, vogliamo solo prodotti confezionati in maniera sterile, o almeno percepita come tale.

Va forte il biologico, in leggera ripresa è l’etnico, c’è un’accentuazione sul vegano. La casa è la bolla protettiva degli italiani, che sembrano avere stili di vita decisi da una sorta di macchina del tempo che ora accelera ora arretra. Da un lato si collegano in modo compulsivo a internet (anche per gli acquisti) e alla televisione on demand; utilizzano ormai solo il cellulare per comunicare – tant’è che le vendite di smartphone sono in aumento del 43 per cento; comprano più robot da cucina (più 110 per cento) o piccoli elettrodomestici per pulire e sanificare, ma meno aspirapolveri di ultima generazione; dall’altro hanno riscoperto comportamenti sociali molto tradizionali: fanno pasta, pane e dolci per la colazione in casa, e rinunciano a mangiare fuori.

Dalla fotografia scattata da Coop, l’amministratore delegato del gruppo Maura Latini,nota come sia «indubbio che il Covid abbia cambiato gli usi dei consumatori. In tali atteggiamenti, dove troviamo conferme a fenomeni già individuati, emerge che siamo più attenti alla sostenibilità, molto meno propensi a spendere nel superfluo e più attenti a tutto ciò che è bio». Le tendenze che si stanno affermando sono queste: andremo meno al cinema, a teatro, ai musei, saranno sempre più rari i grandi eventi come i concerti, anche gli appuntamenti sportivi, a partire dal calcio, perdono appeal.

A parziale consolazione si (ri)scoprono i libri (il 57 per cento del campione degli intervistati da Coop dice che leggerà di più), le riviste e i giornali; e il tempo libero sarà impiegato per attività più personali come volontariato o «coltivare l’orto». La spesa complessiva per il giardinaggio che già oggi vale 2,7 miliardi di euro, è prevista in crescita. Un ritorno alla natura a misura di appartamento. C’è, come detto, un prepotente ritorno alla tradizione: si trascorre più tempo in cucina per preparare ricette di famiglia (l’82 per cento dichiara di aver riacceso i fornelli), e ci si dedica molto di più al bricolage. Gli hobby casalinghi hanno fatto impennare il fatturato di questo settore, che ora sfiora i cinque miliardi: dal silicone per sigillare alla pittura per pareti, dalle attrezzature elettriche alla piccola falegnameria. È in caduta libera, invece, l’abbigliamento: il 71 per cento ha detto che non comprerà né vestiti né scarpe nuove, e ugualmente soffre l’arredamento.

Ma se questi sono i nuovi profili di consumo, continuiamo a essere preoccupatissimi: uno su due è convinto che la crisi non passerà neppure il prossimo anno e quasi il 90 per cento ritiene che le diseguaglianze aumenteranno – ci sono anche differenze di percezione in ciò che vale davvero: il lavoro piuttosto che la salute o viceversa.

Guardando alle professioni, gli italiani sono convinti che lo smart working aumenterà , si stabilizzerà, e dichiarano che i mestieri che contano sono per il 72 per cento le attività medico-sanitarie, per il 69 per cento quelle di comunicazione e per il 63 quelle agricolo-alimentari. Sono i bisogni indotti dalla «clausura» causati dalla pandemia: salute, informazione, alimentazione. Si spende meno, ma il risparmio è cresciuto l’8 per cento su base annua, con una cifra pari a 125 miliardi di euro.

Confcommercio stima che in seguito a lockdown anche parziali spariranno 270 mila imprese. Limitandoci a bar e ristoranti , la perdita ammonta a 300 milioni di euro al mese e sono già 49 mila le partite Iva chiuse nelle più diverse professioni. Nel turismo si è perso il 50 per cento della base produttiva e sul fronte dei consumi l’indice registra su base annua un calo – meno 5,2 per cento – con i servizi precipitati del 20,3 per cento. La drammaticità del momento la coglie la Caritas: confrontando il periodo maggio-luglio del 2019 con quello del 2020, rileva che l’incidenza dei «nuovi poveri» è passata dal 31 al 45 per cento: quasi una persona su due che si rivolge all’organismo pastorale della Cei lo fa per la prima volta. Aumentano le famiglie con minori, le donne, i giovani, i disoccupati, e gli italiani sono in maggioranza (52 rispetto al 47,9 per cento dello scorso anno). E sempre la Caritas stima che si perderanno alla fine dell’anno 850 mila posti di lavoro.

A causa del coronavirus c’è un grande freddo in arrivo.

Quelli che non si arrendono

Come (e cosa) consumano gli italiani nell’età dell’incertezza
Quelli che non si arrendono

Accanto a un’Italia smarrita ce n’è un’altra che va avanti nonostante tutto. e con ottimismo resiste, rilancia, progetta, investe, apre. cercando di guardare oltre la crisi.

di Massimo Castelli

Sara Dassi ha poco più di trent’anni, fa la designer d’interni e di tessuti in Brianza, e ha sempre avuto un sogno nel casetto: realizzare una propria linea di prodotti. C’è riuscita adesso che il Covid sta infettando quasi ogni attività economica. Insieme a un’altra textile designer, Valeria Tagliabue, ha dato vita al brand Quelleduelì: creano fantasie in tecnica mista e le stampano su tessuti naturali che diventano abiti, accessori, arredamento. «Ci siamo autofinanziate» racconta. «I costi sono alti e il momento è quello che sappiamo, ma abbiamo tanta voglia di crescere e presto riusciremo ad avere un piccolo spazio per mostrare le nostre cose».

Piccole grandi storie di chi non molla, di un’Italia che non perde vitalità, accanto a quella costretta a scelte drammatiche. «Nei prossimi mesi arriverà la registrazione delle chiusure di tante attività, specchio del disastro planetario» ricorda Mariano Bella, direttore dell’Ufficio studi Confcommercio, «ma dobbiamo anche osservare l’importante colpo di reni dell’economia italiana. Tra aprile e giugno, periodo estremamente difficile, si sono aperte 154 mila nuove imprese. Coraggiosi che ci provano nonostante tutto. Non è vero che il Paese si è fermato».

Sono investimenti trasversali, dal food all’alberghiero, dall’abbigliamento al design. Avanti per non affondare. Anche nel turismo, il settore più danneggiato da questo terremoto. «L’industria delle crociere è una delle più colpite dalla pandemia, c’è stato un momento in cui le navi sembravano il centro del male assoluto» dice il managing director di Msc crociere Leonardo Massa. «Ma dobbiamo trovare la forza di rispondere, con determinazione». Per questo Msc è stata la prima a ripartire dopo il lockdown dopo un investimento ingente in sicurezza per medici, sistemi di tracciamento e tamponi a tappeto con risposte in 40 minuti. «Spendiamo 500 mila euro in più a settimana, l’occupazione è ridotta del 50 per cento e i prezzi per gli ospiti sono un po’ più bassi. Ma per noi conta tenere la clientela vicino al prodotto. Siamo in una nuova normalità: serve adattarsi in attesa di tempi migliori».

Un atteggiamento positivo che rivediamo anche nell’apertura eccezionale (e costosissima) dell’hotel Splendido di Portofino, gruppo Belmond, dal 18 dicembre al 7 gennaio. Da vent’anni andava in pausa invernale, ma serve rimettersi in gioco, anche nel mondo dell’hôtellerie. Dove c’è anche chi investe in nuove strutture, come B&B Hotels che in settembre ha aperto a Milano e presto arriveranno Bolzano e Cortina d’Ampezzo.

Il fermento principale riguarda il mondo del food. E anche qui, stesso copione: da una parte le vicende drammatiche di chi è costretto a chiudere, dall’altra una lista di locali che aprono, a testa bassa. Tra gli altri: Antonello Colonna ha appena portato Openissimo a Como, La Pescheria di Napoli sarà a Torino, la mecca della pizza fritta napoletana La Masardona è arrivata a Roma così come l’argentino-milanese El Porteño e l’ultima filiale dei panini al pesce di Pescaria. A Milano apre Felix Lo Basso home&restaurant in via Goldoni, mentre in via Fiamma sono sbarcati il terzo Mannarino (che nel 2021 promette altre quattro aperture in varie città italiane), Crocca e Gelsomina. Lo chef Eugenio Roncoroni, che neanche durante il lockdown ha abbandonato la tolda dei suoi fornelli, ha inaugurato Al Mercato Steaks & Burgers, e in corso Garibaldi, tra febbraio e marzo arriverà un nuovo concept: pizza «a portafoglio» (soprattutto) da gustare con champagne (di piccoli produttori). A fare impresa qui è un gruppo di amici ex bocconiani ritrovatisi nella società StreetPop. «Ognuno di noi ha fatto le sue esperienze in giro per il mondo, adesso investiamo perché nei momenti di crisi si possono cogliere opportunità con ritorni immediati». Così ecco il loro street food, eccezionale perché rivisitato dallo chef Giuseppe Molaro, a lungo «executive» del pluristellato Heinz Beck.

«Siamo di fronte a una nuova ondata di idee» certifica Giancarlo Barbarisi, a.d. di Ism (Impresa sviluppo & management) e consulente specializzato in finanza d’impresa. «So cosa significa questa crisi per tanti, ma sono anche testimone del fatto che in molti stanno uscendo dalla loro zona di comfort per mettersi in proprio. Giorni fa sono arrivati da me alcuni ragazzi di 28-29 anni con l’idea di aprire una sala giochi virtuale. Dietro questa crisi ci sono opportunità. Io mi occupo di finanziamenti pubblici ed europei: ci sono miliardi di fondi disponibili. Questa è la mia realtà controcorrente, anche se detto oggi potrebbe sembrare una bestemmia».

Il mondo sta cambiando a velocità vertiginosa, e in molti credono che l’attenzione all’ambiente stia diventando centrale. Bio, green, sostenibilità. Che si abbina a una sana alimentazione nel caso di Erbert, negozio tra il mercato coperto e la boutique aperto in giugno a Milano (via Moscati) grazie al fondo italiano Oltre Venture. Cibo bilanciato e di qualità in 750 metri quadrati, tra frutta e verdura da agricoltura biologica o biodinamica, pane di farine integrali e lievito madre, carne da filiera controllata, pescato che rispetta stagionalità e ambiente, pasticceria sotto il 10 per cento di zuccheri aggiunti. «All’apertura e per tutta l’estate è stato un disastro» ricorda Enrico Capoferri, founder e a.d., «poi ci siamo ripresi e stiamo incrementando clientela e fatturato. Pensiamo a progetti per ampliare aree di business e partiremo presto con l’ecommerce. A metà 2021 se tutto va bene arriveranno altri punti vendita, ma vorremmo anche entrare nel mondo dei pasti per ufficio, dato che mense e bar ristoranti sono in grossa difficoltà: accreditarci adesso con piatti sani e di qualità per consolidarci in vista del ritorno a una vita normale».

È a trazione ecologica anche il Green Pea di Torino, che si dovrebbe inaugurare l’8 dicembre. Un centro commerciale di 15 mila metri quadrati che vende oggetti italiani ed ecosostenibili, dalle auto, ai mobili, all’abbigliamento. «Scherzando tra di noi diciamo che è l’Eataly delle cose» racconta l’a.d. Francesco Farinetti, figlio di Oscar, fondatore della nota catena di supermercati. «La verità è che se gli imprenditori vivono tutti i giorni di sano panico, con il Covid il panico è aumentato, così abbiamo posticipato l’apertura di quattro mesi, ma ormai ci siamo. L’intenzione è di lanciare altri sette Green Pea all’estero nei prossimi dieci anni».

Intanto si espande in fretta Dan John, azienda italiana di abbigliamento classico da uomo che conta più di 90 negozi nel mondo, e che presto ne aggiungerà 17 con l’assunzione di circa 60 persone (e per questo è stato riconosciuto Campione della crescita retail 2021 dall’Itqf, Istituto tedesco qualità e finanza). «Crediamo nel futuro: se tutti pensassimo che il mondo finirà, finirebbe davvero. Dobbiamo andare avanti. E ve lo dice uno che ha perso il fratello pochi giorni fa a causa del Covid» racconta a Panorama l’a.d. e cofondatore della catena, Daniele Raccah. Che spiega: «Abbiamo rinegoziato le condizioni con i fornitori e soprattutto con chi ci affitta le location, un costo molto rilevante che oggi può essere rivisto al ribasso. Grazie alla crisi abbiamo anche trovato immobili liberi, e quegli stessi che chiedevano un milione all’anno nel 2019 per l’affitto oggi ne accettano 350 mila euro». Una storia di tenacia e intraprendenza. Di più: «Questa è una storia di sopravvivenza» specifica Raccah «bisogna credere nel proprio progetto, perseguirlo e non tirarsi mai indietro, pur calcolando i rischi. Teniamo il lumino acceso in questo periodo buio. Chi saprà resistere vivrà la grandissima rivalsa contro il Covid, e sarà un’esplosione fantastica».

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