Grazie all’Unione europea, l’Italia ha la possibilità di attuare riforme strutturali. Un’occasione che il nostro Paese non dovrebbe perdere.
I dati sul mercato del lavoro che continuano a essere pubblicati dai principali istituti di statistica nazionali e internazionali non fanno che confermare la frattura sociale che la pandemia ha prodotto. La crescita della disoccupazione, l’aumento degli inattivi, l’esplosione della disoccupazione giovanile, il massiccio ricorso ad ammortizzatori sociali (che siano riduzione di orario o sussidi di disoccupazione) testimoniano di come profondo sia stato l’effetto di questa crisi e di come sarà difficile tornare ai livelli pre-crisi.
E questo con la speranza che non si producano nuove ondate di contagio che blocchino le attività produttive. Altrettanto notevole è stato il ricorso a risorse finanziarie – a volte utilizzate in maniera poco selettiva- per sostenere l’attività delle imprese e il reddito dei lavoratori/famiglie. Il basso costo del denaro ha incentivato modelli di helicopter money, creando per il futuro un peso del debito che potrebbe rivelarsi insostenibile (per cui riforme del sistema pensionistico che accorcino la vita lavorativa appaiono quanto mai inopportune).
Nell’Unione europea sembrano avviarsi finalmente i meccanismi di comune risposta alla crisi. Nei prossimi giorni è ormai atteso l’attuazione del meccanismo Sure (che permetterà di finanziare schemi di sostegno al reddito) e si sta avviando il disegno di Recovery Plan. Emerge così la possibilità di attuare riforme strutturali con risorse finanziarie, una occasione che Paesi come l’Italia non dovrebbero perdere e che potrebbe permettere di riagganciare il treno della crescita europea posizionandoci nei posti di prima fila.
Per fare questo è necessario non disperdere le risorse finanziarie in mille rivoli e selezionare con cura le priorità, come tutti apparentemente affermano. È opportuno ricordare, infatti, che la crisi innescata dalla pandemia si è innestata in un processo (in corso) di ampia trasformazione del mercato del lavoro, trainato certamente dalla rivoluzione digitale e in parte anche dalla transizione ecologica.
Trend di lungo periodo che però modificano sostanzialmente le modalità di produzione e la struttura organizzativa delle attività produttive e dei servizi, nonché le competenze dei lavoratori. In quest’ottica le riforme che dovranno essere promosse devono accompagnare questi processi, favorendone la naturale evoluzione e proteggendo i lavoratori/lavoratrici nelle fasi di transizione.
L’agenda delle riforme dovrà dunque essere attentamente costruita tenendo conto di questi fenomeni. A leggere le priorità di questi giorni qualche dubbio emerge. Una strategia di medio periodo quale quella del Recovery Plan richiede che l’obiettivo sia quello dell’innalzamento del tasso di occupazione e la creazione di una società attiva.
Le modalità per il suo raggiungimento sono assolutamente chiare: 1. strategia nazionale delle competenze, con investimenti sulla formazione tecnica e sul raccordo tra imprese e sistema educativo; 2. rafforzamento delle politiche attive, sviluppando una efficiente rete dei servizi per l’impiego, un efficace sistema di incrocio domanda/offerta, uno strumento per la rapida ricollocazione dei lavoratori; 3. semplificazione del sistema delle tutele passive, più coerente con le necessità del sistema (delle imprese) e fortemente orientato alla riconnessione dei lavoratori/lavoratrici con il mercato del lavoro; 4. riforma (semplificazione) delle regole del lavoro; 5. sistema fiscale e contributivo più leggero e che aiuti la contrattazione, in particolare quella di secondo livello.
Altre fantasie che oggi si trovano sui tavoli di confronto dovrebbero essere abbandonate perché rischiano di aprire forti divisioni ideologiche e, soprattutto, di essere anacronistiche rispetto alle esigenze dei tempi. Peraltro, le risorse, per quanto robuste, sono comunque limitate e occorrono azioni crash, piuttosto che dispersioni su obiettivi inutili. I numeri della crisi sono impietosi e segnalano le criticità del mercato del lavoro, nel mondo come in Italia. Da noi però essi si sommano a situazioni già complesse e a fratture molto profonde.
Non è necessario riaprire il campo di battaglia del lavoro. Il massimalismo in questo ambito è già stato sconfitto, nonostante abbia fatto di tutto per vincere. L’interpretazione ideologica del mercato del lavoro con gli anni Settanta oggi appare solo foriera di grandi guai. L’esperienza di questi anni dovrebbe avere insegnato che è contro natura bloccare l’evoluzione del mercato del lavoro perché il risultato è accrescere le ineguaglianze, diminuire la produttività, bloccare la crescita delle imprese.
La strategia del Recovery Plan deve permettere all’Italia di ottenere quel risultato storico dell’aumento del tasso di occupazione, di una società pervasivamente attiva, di un tessuto sociale e produttivo più ricco e coeso che da tanti anni stiamo cercando di ottenere. Non deve essere l’ottuso tentativo di una rivincita sulla storia che pagheremmo ad un prezzo che non possiamo più permetterci.
