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Come non passare dalla pandemia alla carestia

Come non passare dalla pandemia alla carestia

Rubrica: Portugal Street

Occorre una riflessione su nuovi ammortizzatori e nuove forme di protezione sociale. Ma deve essere scevra di pregiudizi ideologici. E basata basi su dati di fatto.


La progressiva riapertura delle attività economiche riconsegna un Paese che lentamente dovrà riprendere il suo cammino. Le ferite lasciate da questi tre mesi di chiusura massiva sono molto profonde e alcune anche inesplorate. Il timore che dalla pandemia si passi alla «carestia» è una concreta realtà. La prospettiva di una crescita della disoccupazione e della inattività – seppure mascherata da cassa integrazione – è nelle attese di tutti i previsori nazionali ed internazionali.

Il rischio di un aumento della disoccupazione di lunga durata e di crescenti diseguaglianze sociali è alla base delle decisioni assunte riguardo l’erogazione quanto più estesa di sussidi ai lavoratori per contrastare un deterioramento rapido e drammatico del mercato del lavoro.

D’altra parte, i dati che si stanno riscontrando in tutti i Paesi industrializzati sono straordinariamente convergenti nell’indicare la necessità di una diffusa e solida, sia pure temporanea, rete di protezione sociale capace di unire sostegno alle famiglie e aiuti (a fondo perduto) alle imprese.

Tuttavia, già si apre il dibattito sulla necessità di riformare il nostro sistema di welfare state, sulla opportunità di intervenire o meno sulla cassa integrazione e di estendere il reddito di cittadinanza facendolo diventare un reddito di ultima istanza o di base, sull’introduzione del salario minimo.

Riflessioni certamente giuste perché il sistema sta mostrando qualche falla (senza che per questo la nave affondi) ma da gestire con grande cautela per due ragioni. La prima è di carattere generale: qualsiasi riforma deve tenere conto del fatto che nei prossimi mesi ancora più importante che proteggere sarà l’obiettivo di creare lavoro e ricchezza. Sarà determinante offrire tutte le possibilità affinché si possa rientrare nel mercato del lavoro e vi sia una qualche tipo di attività lavorativa.

Occorrerà riconfermare il lavoro come strumento principale per una società attiva. Concentrarsi sulle reti di protezione potrebbe essere deviante e controproducente per l’economia e la società italiana. La seconda ragione è che il dibattito rischia di essere più ideologico che fondato su fatti reali. Alcune avvisaglie sono state già avvistate all’orizzonte, purtroppo il solito orizzonte, quello della conservazione e della reazione.

Già, perché è stata già messa sotto accusa l’abolizione (parziale) dell’articolo 18, la parcellizzazione del mercato del lavoro, la contrattazione aziendale o territoriale, il contratto di prossimità. Tutte politiche che avrebbero distrutto i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, dato un potere esagerato alle imprese, consegnato il mercato del lavoro allo sfruttamento. Temi di dibattito ideologico purtroppo tristemente noti. Temi che ci riportano indietro di 20 anni, anche se oggi sono riverniciati con il verde della green economy.

Si dimentica, invece, che la maggiore flessibilità (regolata dai contratti) del mercato del lavoro ha consentito la progressiva crescita del tasso di occupazione; che l’abolizione (parziale) dell’articolo 18 non ha comportato nessuna corsa selvaggia ai licenziamenti; che la creazione di tanti strumenti (regolati) per accedere al mercato del lavoro ha permesso di farvi entrare categorie escluse e che hanno aumentato il tasso di attività di una società non-attiva come quella italiana.

Quindi ben venga una nuova riflessione su nuove forme di protezione sociale e su nuovi ammortizzatori, a patto che sia scevra di pregiudizi ideologici e si basi su dati di fatto e osservazioni quanto più puntuali di dati. E sperando che anche questa volta non vincano nelle stanze dei decisori politici quelli che preferiscono solo un rigido contratto di lavoro per tutta la vita, a costo poi di incrementare il lavoro sommerso, a forme di contratto flessibili e agili (voucher per esempio) ma che hanno tutele e protezioni.

Forse la flexicurity era una parola dell’era della globalizzazione e del progressismo, ma pensare di tornare agli anni Settanta relegherebbe la nostra Italia nel secondo girone dei Paesi sviluppati. E questo non credo ce lo possiamo permettere.

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