Attraverso un negozio di abbigliamento come copertura, a Roma, le inchieste hanno scoperto un riciclaggio di proventi del narcotraffico con conti di comodo nella Repubblica popolare. Tra i «correntisti» di queste attività per ripulire i contanti – in una rete più ampia di cui aveva parlato anche Panorama – c’è la ’ndrangheta.
Aeroporto di Schipol, Amsterdam: un cittadino cinese partito da Fiumicino viene controllato alla dogana. Nel doppio fondo di una grossa valigia nascondeva 1.387.900 euro divisi in mazzette di banconote dal piccolo taglio. «Ho un negozio di abbigliamento a Roma» prova a giustificarsi Jun Jin che, però, alle autorità appare subito come «un corriere di valuta». Uno spallone. Quando gli chiedono la sede della sua ricca attività commerciale lui risponde: via Turati 132, Roma. La segnalazione arriva in Italia e sul civico indicato viene installata una telecamera. In un mese gli investigatori vedono entrare pochissimi clienti in cerca di abbigliamento in arrivo da Pechino e molte persone che si presentano davanti alla porta vetrata con borsoni e valigette 24 ore. Una delle sedi operative della banca cinese del riciclaggio funzionava lì da tempo. E forse anche per questo era sfuggita ai controlli sulle «imprese temporizzate», quelle che, come ha svelato lo scorso maggio Panorama, sono progettate per esaurire il proprio ciclo di vita nel volgere di pochi mesi con le classiche partite Iva «apri e chiudi». Nella filiale di via Turati sembrava ci fosse una cassa continua, vista la processione di chi si presentava per versare. Trading stimato: 95 mila euro al mese. Tutti in contanti. Molti habitué sono stati identificati. E si è scoperto che la loro professione è quella dello spallone. Sono tutti cinesi e lavorano sempre per le stesse famiglie: gli Zheng e i Lin. Controllando i loro precedenti sono emersi sequestri in aeroporto, sempre a Fiumicino, per complessivi 53 milioni di euro tra il 2017 e il 2021. I sequestri, fino a quel momento, erano apparsi come slegati l’uno dall’altro.
Ora però gli investigatori della Guardia di finanza cominciano a metterli in fila. E scoprono che apparenti e anonimi negozi d’abbigliamento Made in China disseminati per Roma in realtà erano una copertura per «lavanderie» dove riciclare i soldi sporchi del narcotraffico. Salta fuori subito una seconda filiale: via Napoleone III, civico 76. Il proprietario, Wen Kui Zheng, sostengono gli inquirenti, avrebbe «una sorta di cassa depositi e prestiti, attiva in un tortuoso circuito con sedi sparse sul territorio nazionale e dipendenti da una holding con base in Cina».
L’unico vincolo previsto sarebbe stato «garantire», evidenzia chi indaga, «l’incognita provenienza delle somme e l’anonima identità dei legittimi titolari». Una sorta di segreto bancario alla cinese. I soldi non erano tracciabili, perché coperti «da fittizie operazioni commerciali». I cinesi chiamano questo escamotage Fei Ch’ien, ovvero «denaro volante». Il trasferimento all’estero era solo virtuale. I contanti depositati nella cassa dei broker, in realtà, non lasciavano fisicamente l’Italia. All’estero era trasferito solo il valore nominale. Il denaro poi tornava ai trafficanti tramite corrieri di valuta. Nella filiale di via Napoleone III, Zheng riceveva le visite dei Gala e dei Capogna, due gruppi che, per gli inquirenti della Procura antimafia romana guidata da Francesco Lo Voi, hanno messo da qualche tempo le mani sul mercato della droga nella Capitale. Negli ambienti della mala, si è scoperto, Zheng era conosciuto come «Luca il cinese». Un nome citato 577 volte nell’ordinanza di 260 pagine con cui il gip di Roma, a inizio ottobre ha arrestato 22 persone. Ma che, ha scoperto Panorama, è sotto la lente dei magistrati anche in Calabria.
Da Reggio Calabria, Santo Flaviano parte con 500 mila euro in contanti da ripulire all’estero. Destinazione Esquilino. La somma, nascosta nel vano posteriore di una Fiat 500 di proprietà della vedova di un uomo ucciso in un agguato di ’ndrangheta a Reggio Calabria, viene sequestrata. E, sospettano gli inquirenti, potrebbe essere proveniente dal «contesto criminale calabrese». Il secondo contatto sospetto è con Rizieri Cua da Locri (Reggio Calabria). Anche lui viene visto entrare con una busta bianca nella filiale di via Napoleone III. Nel sistema di fotosegnalamento delle forze di polizia risulta per traffico di stupefacenti, detenzione di armi, associazione di tipo mafioso e omicidio». A questo punto il paradigma dell’inchiesta si è invertito. Il giro romano pare inserirsi in un contesto più ampio. A Bologna, per esempio, in un’inchiesta del procuratore Giuseppe Amato sono emerse connessioni proprio tra gruppi criminali cinesi e la ’ndrangheta. E un collaboratore di giustizia calabrese, Gennaro Pulice, aveva anticipato l’esistenza di un meccanismo di riciclaggio cinese sfruttato dai boss: «Grazie a transazioni con l’acciaio fanno pervenire i soldi su conti Cina. Questo giro è iniziato già dal 2013». Le sue rivelazioni hanno portato gli inquirenti a Milano, dove avrebbero riciclato i loro proventi i Greco di San Mauro Marchesato (Crotone) e i Grande Aracri di Cutro. L’ennesima conferma dell’asse finanziario tra ’ndrangheta e varie Chinatown italiane