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Cina in crisi, Stati Uniti all’attacco, la nuova guerra fredda economica divide l’Europa

Cina in crisi, Stati Uniti all’attacco, la nuova guerra fredda economica divide l’Europa

Crescita cinese in stallo, dazi USA e sfida globale tra Xi Jinping e l’Occidente. Trump rilancia la strategia industriale. L’UE rischia di finire nella trappola di Pechino. Scenari, numeri e strategie in gioco.

«La Cina è una bomba a orologeria; stava crescendo dell’8 per cento all’anno, ora è vicina al 2. Il numero di persone in età pensionabile è maggiore del numero di persone in età lavorativa. Quindi ha dei problemi, e quando i cattivi hanno problemi fanno cose cattive». Firmato Donald Trump? No, firmato Joe Biden. La memoria corta, anzi inesistente come quella che mostra la baronessa Ursula von der Leyen in buona interessata compagnia di Emmanuel Macron e della coppia democristiana tedesca Friedrich Merz-Manfred Weber, fa comodo in questo momento per evitare di prendere atto che il nemico dell’Occidente è Pechino e non Washington. Nello scontro tra l’Aquila e il Dragone, l’Unione sembra stare dalla parte del mostro comunista. La ragione è semplice e infantile al tempo stesso.  Trump ha messo a nudo l’inconsistenza politica e la contraddizione economica della Ue che resiste aggrappata all’euro e oggi si dibatte per evitare di dar ragione a Oliver Hart – Nobel dell’Economia, una delle voci più autorevoli di Harvard – che sostiene: «L’euro è stato un errore, per sopravvivere l’Unione europea deve restituire potere agli Stati oppure rischia il fallimento». Se qualcuno si chiede perché il presidente americano tenda a non dare peso a Bruxelles e voglia rapporti bilaterali deve guardare anche a questo professore, discendente di lord Montagu, un liberale che ha studiato il mondo dei contratti. 

L’Europa è in mezzo al guado: o sta con Donald Trump o si lascia trascinare nell’orbita di Xi Jinping

il dittatore comunista di Pechino che obbedisce a una precisa strategia: la goccia cinese. Quasi emulo di Mao Zedong che dal 1934 al 1949 perseguì la lunga marcia, Xi Jinping vuole arrivare al centenario della Repubblica cinese nel 2049 con due obiettivi: aver «ricongiunto» Taiwan al continente asiatico e aver affermato l’economia cinese come prima al mondo. Entrambi prevedono la sconfitta degli Stati Uniti e dell’Occidente.  Nel 2001 – era l’11dicembre a tre mesi esatti dalla strage delle Torri gemelle a New York – la Cina entrò nel Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio, senza condizione alcuna: non fu dichiarata neppure economia di mercato il che le consentiva di agire al riparo dagli obblighi di evitare aiuti di Stato.  Primo mentore fu Romano Prodi che da presidente della Commissione europea agevolò in tutti i modi l’approdo di Pechino all’economia globale.

Senza tener conto che rappresentava una pericolosa anomalia: si affermava l’esistenza di un capitalismo senza libertà. Formula che rischia di diventare contagiosa e che è contraria a tutti i valori occidentali. Negli anni i cinesi hanno avuto molti modi di ricompensare Prodi, che oggi insieme con Massimo D’Alema e in compagnia prima di Beppe Grillo e poi di Giuseppe Conte – il primo e unico leader del G7 ad aver firmato gli accordi della Via della seta che Giorgia Meloni si è poi incaricata di non rinnovare – guida la più accesa «fazione» filo-cinese, condizionando le scelte europee e del Partito democratico in Italia. 

La goccia cinese prevede che Pechino, al riparo da ogni contestazione del Wto – di cui si celebra quest’anno il trentennale -, possa conquistare sempre più spazio nelle organizzazioni internazionali.  Al vertice dello stesso Wto la Cina ha imposto nel 2021 – e ora la ricandida – la nigeriana Ngozi Okonjo Iweala. Così come a capo dell’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità, sta Tedros Adhanom Ghebreyesus, etiope che nulla ha fatto perché si scoprisse la vera origine del Covid partito dalla città di Wuhan. 

È poi dai tempi di Mao che l’Africa è al centro dell’espansione cinese

il Dragone prevede 50 miliardi di dollari di investimenti in tre anni, fino al 2027, con un interscambio commerciale per 170 miliardi di merci vendute e 110 di merci importate con un vantaggio di 60 miliardi di dollari per Pechino. Lo stesso vale per la collaborazione con i Brics e il patto di ferro che lega la Cina alla Russia di Vladimir Putin. Egualmente capita all’Onu dove è alla testa degli anti-occidentali. Appena Donald Trump ha lanciato l’offensiva sui dazi Xi Jinping è volato in Vietnam, Cambogia e Corea per contrastarne «il bullismo unilaterale». Quei Paesi sono oggi i «contoterzisti», i nuovi produttori, di Pechino che ha proseguito la sua strategia della goccia, passando per Singapore e Hong Kong. In questo quadro va letto il progressivo avvicinamento della Repubblica popolare al Vaticano. Oggi il segretario di Stato cardinale Pietro Parolin è più guardingo, ma Xi Jinping ha fatto di tutto perché Papa Francesco accettasse una «pax catholica» basata sul fatto che la Cina controlla strettamente la nomina dei vescovi oggi guidati da Joseph Li Shan, arcivescovo di Pechino, mentre sul vero oppositore al regime, il cardinale Joseph Zen, più volte arrestato perché rivendica i diritti umani, è calato il silenzio. 

Questa strategia consente oggi al presidente cinese di sfidare  Trump facendo in modo che il mondo li consideri alla pari, mentre l’uno è un dittatore comunista e l’altro il rappresentante della più solida e vasta democrazia del mondo. L’Europa, che appunto deve decidere da che parte stare, è in una posizione scomoda. L’inquilino della Casa Bianca ha lanciato la sua offensiva sui dazi quasi rispondendo a un imperativo tanto caro alla nostra sinistra: se non ora quando? I motivi sono essenzialmente cinque: l’America ha un deficit commerciale ormai non più sopportabile (siamo oltre i mille miliardi di dollari), è gravata da un debito pubblico enorme (36 mila miliardi di dollari), ha bisogno di ridare reddito alla classe media (quella che ha votato Trump, quella che il vicepresidente J.D. Vance rappresenta e che vive nella Rust Belt, gli Stati dei Grandi laghi, un tempo cuore pulsante della manifattura a stelle e strisce) e deve reindustrializzarsi, ma di fronte ha una superpotenza avversaria con seri problemi e un Vecchio continente mai così diviso. Dunque è questo il momento di sottrarsi alla goccia cinese. 

Già Joe Biden aveva posto le basi per il reshoring, il richiamo di produzioni in patria, con l’Inflaction Reduction Act e oggi Trump pone questa come prima esigenza. Ma il presidente americano deve disinnescare un altro fattore di rischio: la sopravvalutazione del dollaro, oltre a evitare il ricatto sul debito americano (la Cina ne detiene appena 800 miliardi, ma manovra molto le quotazioni dei bond americani). 

Il fatto che il biglietto verde sia la moneta di riferimento del 90 per cento degli scambi (il 7 per cento viene fatto in euro, soltanto il 3 per cento in yuan) vincola il dollaro.

Perciò Trump vuole dal presidente della Federal Reserve Jerome Powell sconti sui tassi e dà retta a Stephen Miran, suo mentore economico, nell’insistere per  un accordo tra le banche centrali, dalla Bce a quella del Giappone compresa la cinese, perché vendano i loro dollari. Svalutare è indispensabile per esportare di più. Il presidente americano – che ha messo nel mirino tutti gli organismi internazionali dove la Cina ha radicato il suo potere e anche le intese con Vladimir Putin vanno in quella direzione – sa che questo è il momento: Xi Jinping ha gravi emergenze a cui mettere mano. 

Il Pil della Repubblica popolare ha avuto una crescita geometrica (da 12.800 miliardi di dollari del 2019 a 16.614 miliardi del 2024) e, tuttavia, oggi il Paese è fermo. Le credibili previsioni di Ubs hanno ridotto la crescita: non oltre il 3 per cento, ma Xi Jinping ha promesso il 5. Goldman Sachs ha stimato che il 3 per cento dell’occupazione cinese – 20 milioni di operai – è a rischio per i super-dazi. Anche per questo le famiglie non spendono: la Cina è in deflazione da 25 mesi consecutivi. 

Sempre Xi Jinping ha obbligato Pan Gongsheng, presidente della banca centrale, a svalutare lo yuan arrivato ai minimi da 18 anni rispetto al dollaro in attesa di fare debuttare il Renminbi elettronico come moneta di riferimento degli scambi cinesi e dei Paesi Brics, avviando così la de-dolarizzazione. C’è di più: il signore di Pechino deve fare i conti con un debito privato totale – aggravato da quello degli enti locali – che è salito al 199 per cento del Pil. E il Dragone ha un enorme problema di sovracapacità produttiva e deve spingere l’export (arrivato a toccare i 990 miliardi di dollari di attivo) per evitare il tracollo. 

Dai porti cinesi – Shanghai è il più importante – si cerca di sfruttare la rotta artica per risparmiare e spedire quanto più si può.

Ecco perché Trump ha messo nel mirino la Groenlandia e Panama che oggi torna in mano alla joint venture tra BlackRock e l’italo-svizzero Gianluigi Aponte, armatore di Msc. Ora l’Europa deve stare attenta a non farsi invadere dalle produzioni cinesi, soltanto per fare dispetto a Trump: a rischiare, infatti, sono le sue imprese.  

Anche per questo la posizione italiana, sostenuta da Giorgia Meloni nel colloquio nello Studio ovale alla Casa Bianca – siamo pur sempre il quarto Paese esportatore al mondo – è di mediazione. 

Infine, Xi Jinping ha un ennesimo problema: l’energia. La Cina, insieme con il gas russo, ha cercato di assicurarsi il petrolio del Golfo, spalancando all’Arabia Saudita la porta dei Brics. Ecco spiegato perché, sempre per stoppare la goccia cinese,  Trump stia rilanciando l’intesa col principe saudita Mohammad bin Salman. 

Xi reagisce evitando di comprare Boeing e pezzi di ricambio degli aerei, rilancia bloccando l’export di terre rare, attacca portando i dazi al 125 per cento sulle merci americane. Ma gioca una partita difficilissima. Non foss’altro perché lo stipendio medio di un cinese è sotto i cinquemila dollari l’anno, quello europeo attorno ai 42 mila dollari lordi, quello statunitense 61 mila dollari netti. Senza la domanda dell’Occidente la goccia cinese finisce nello scarico.

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