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La Cina si mangia il mondo in «salsa verde»

La Cina si mangia il mondo in «salsa verde»

  • La transizione ecologica è un favore a Pechino che utilizza combustibili inquinanti, controlla i minerali e produce impianti eolici e fotovoltaici.
  • La campagna d’Africa di Pechino

L’Occidente non lo sa, ma sta nutrendo un mostro pericoloso e aggressivo: un mostro che cresce, si gonfia, e prima o poi potrebbe anche mangiare la mano che lo nutre. È così perché le regole ambientali, che da anni in Europa e negli Stati Uniti mirano alla salvezza del pianeta, hanno una inquietante controindicazione: rendono sempre più potente la Repubblica popolare cinese. Ogni nostro passo in più sulla strada della transizione energetica regala a Pechino strumenti utili per sopraffare il resto del globo. Insomma, se cento anni fa Lenin aveva previsto (fortunatamente sbagliando) che i capitalisti avrebbero venduto all’Unione sovietica la corda con cui sarebbero stati impiccati, oggi la Cina comunista sta sfruttando a suo esclusivo vantaggio le costose politiche «green» che impegnano il mondo occidentale. Le politiche ambientali potrebbero trasformarsi nel cavallo di Troia che consegnerà a Pechino il definitivo dominio del mondo.

La scoperta è clamorosa, ed emerge con la forza di una denuncia da un documentato rapporto della Fondazione Farefuturo. Il think tank di centrodestra presieduto da Adolfo Urso ha indagato nel campo delle politiche ambientali, ha cercato di capire come si stia svolgendo la competizione globale. Il risultato è insieme sorprendente e terrorizzante. Soprattutto dal 2015, con l’Accordo di Parigi sul clima, il mondo ha cominciato ad abbandonare con sempre maggiore velocità i combustibili fossili, per passare alle energie rinnovabili, soprattutto al solare e all’eolico. Sei anni fa, anche la Cina ha firmato l’Accordo ma ha ottenuto deroghe paradossali, che le consentono di continuare imperterrita a inquinare.

Lo conferma l’associazione ambientale Global coal exit list: nel 2019 la Cina ha costruito 50 nuove centrali a carbone, che ne hanno portato il consumo totale a 226,2 gigawatt (un Gw equivale a un miliardo di watt: per fare un confronto, l’energia eolica oggi installata in tutta l’Europa vale 100 Gw). Grazie a loro, la Cina è cresciuta dal 40 al 45 per cento del consumo globale di carbone. Anche nel 2020, l’anno della pandemia, l’isolata crescita del Pil cinese (il 2,3 per cento in più) ha fatto sì che Pechino abbia dovuto accrescere la produzione energetica. È vero che ha aumentato anche le fonti rinnovabili, e oggi la Cina ha 175 Gw di energia eolica installata, ma nell’ultimo anno il regime ha creato soprattutto centrali a carbone, molto meno costose e più efficienti, per una capacità aggiuntiva di altri 73 Gw: questo è accaduto mentre il resto del mondo, nel 2020, chiudeva impianti a carbone per 17,2 Gw.

Insomma, l’Occidente investe centinaia di miliardi per proteggere l’ambiente, mentre il regime di Xi Jinping ha appena celebrato con manifestazioni militari di stampo imperiale i 100 anni della fondazione del Partito comunista, il 1° luglio, e lanciando l’improbabile slogan «Per un mondo migliore, Xi ha il mondo nei suoi pensieri», ma intanto sfrutta sempre di più i combustibili inquinanti, e così risparmia. E continua a investire anche nel petrolio. Il rapporto di Farefuturo certifica che la Cina oggi sta costruendo o pianificando 34.273 chilometri di oleodotti per il trasporto di petrolio, con un investimento stimato di 173 miliardi di dollari. Dato però che i costi dell’impianto si ammortizzano mediamente in 50 anni, l’espansione di queste infrastrutture rende inverosimile l’impegno di Pechino alla «carbon neutrality» entro il 2060. La Cina continuerà invece a inquinare ben più a lungo, e per la sua energia spenderà molto meno di quanto fa il resto del mondo, ottenendo un immenso vantaggio competitivo. Se si pensa all’isteria ambientale che negli ultimi anni ha fatto di Greta Thunberg un’icona globale, viene da sospettare che l’Occidente sia vittima di un sottile gioco propagandistico, un’abile disinformatjia made in China.

Anche perché, giorno dopo giorno, gli immensi sforzi dell’Occidente verso la transizione ambientale regalano a Pechino un altro vantaggio competitivo, ancor più preoccupante. Che si basa sulle «terre rare». Vengono così definiti 17 elementi chimici dai nomi strani, molto poco diffusi sulla superficie terrestre ma dotati di particolarissime proprietà elettrochimiche, magnetiche e ottiche. Le terre rare rendono le leghe più resistenti, leggere, magnetiche e conduttive. Il neodimio fuso nel ferro e nel boro, per esempio, produce un magnete 100 volte più piccolo e leggero di quelli tradizionali, a parità di potenza: quindi è fondamentale per i motori delle auto elettriche. E senza l’europio non si produrrebbero le lampade a led, a basso consumo. Le «terre rare» sono fondamentali per la produzione di superconduttori, batterie, componenti dei veicoli ibridi, magneti, fibre ottiche… Insomma, per quasi tutte le principali nuove tecnologie «green».

E chi ha il monopolio mondiale sulle «terre rare»? Ovvio: la Cina. Dalle miniere che ha nel suo territorio, più quelle che controlla grazie alle concessioni che negli ultimi 15 anni ha ottenuto in Africa, Pechino ha in mano l’80 per cento della produzione. Urso, che è anche parlamentare di Fratelli d’Italia, ricorda l’inascoltato monito lanciato al mondo nel 1992 dal presidente Deng Xiaoping, grande modernizzatore dell’economia cinese: «Il Medio Oriente ha il petrolio», aveva detto Deng, «ma noi abbiamo le terre rare». Trent’anni dopo, quella consapevolezza rischia di trasformarsi nella più potente arma geopolitica a disposizione dell’aggressivo regime di Xi Jinping, che in futuro potrebbe impiegarla per condizionare l’Occidente, bloccando tutti i suoi grandi e costosi progetti «green». Non è uno scenario improbabile, visto che l’arma è già stata usata pochi anni fa. Nel 2010, per alcuni mesi, Pechino ha interrotto l’export di terre rare verso il Giappone come ritorsione contro Tokyo, che aveva bloccato un peschereccio cinese che pescava nelle acque territoriali delle isole Senkaku, appartenenti al Giappone ma rivendicate dalla Cina.

Tra l’altro, il controllo cinese sulle terre rare è divenuto ancor più totale dal febbraio 2021 grazie al colpo di Stato militare in Myanmar, da subito sospettato di essere stato orchestrato in Cina. Secondo l’US geological survey, il Myanmar controlla il 12-13 per cento della produzione globale di terre rare, che già nel 2020 al 65-70 per cento venivano acquistate da Pechino. Dopo il golpe, l’export di terre rare dal Myanmar verso la Cina sta aumentando, e ne accrescerà il potere di condizionamento sul resto del mondo. È un vantaggio che rischia di essere più efficace di una supremazia militare.

Lo stesso monopolio strategico la Cina detiene nei «minerali critici», altre materie prime poco diffuse come il cobalto, la bauxite e il litio, che servono per realizzare prodotti sui quali punta la transizione ambientale, come le batterie per i mezzi di trasporto elettrici, e per costruire impianti eolici e solari. Secondo la Banca Mondiale, per eliminare i combustibili fossili e passare alle energie rinnovabili, da qui al 2050 serviranno 3 miliardi di tonnellate di metalli, di cui 600 milioni di minerali critici. Ma la tabella a pag. 13 indica il preoccupante livello di dipendenza dell’Europa dalla Cina per i principali sette «minerali critici». Ed è una dipendenza destinata a crescere, proprio grazie alle politiche ambientali. Bruxelles da poco ha stimato che entro il 2030, soltanto per produrre batterie per automobili e strumenti per lo stoccaggio di energia, avremo bisogno di aumentare di 18 volte la disponibilità di litio, e di 5 quella di cobalto. Nel 2050 la quantità dovrà essere superiore di 60 volte per il litio e di 15 volte per il cobalto. Certo: se la Cina vorrà venderceli, e comunque al prezzo che deciderà il Partito comunista cinese.

Il mondo non lo sa, non ha ancora capito che sta nutrendo un mostro. Ma presto dovrà accorgersene. Del resto, la gloriosa corsa globale alla transizione energetica, fin qui, ha ignorato anche altri misfatti compiuti dalla Cina. Negli ultimi anni, per esempio, le organizzazioni umanitarie hanno denunciato la deportazione di massa nello Xinjiang degli uiguri, una minoranza musulmana. Lo Xinjiang è una regione nel Nord-ovest della Cina dove sorgono molte grandi fabbriche di polisilicio, la fondamentale materia prima di miliardi di pannelli solari. Oggi Pechino produce l’80-90 per cento del polisilicio consumato nel mondo. E che cosa c’entrano gli uiguri? Il regime ne ha deportati 10 milioni in Xinjiang, ne ha rinchiusi moltissimi nei campi di lavoro. Li ha impiegati coattivamente anche nelle fabbriche di polisilicio. «In Occidente i componenti dei pannelli fotovoltaici hanno avuto un’incredibile caduta di prezzo», conferma Rosa Filippini, ambientalista ed ex parlamentare dei Verdi, «perché sono prodotti da schiavi». Qualcuno, forse, dovrebbe informarne Greta Thunberg.

La campagna d’Africa di Pechino

La Cina si mangia il mondo in «salsa verde»
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Nel principale continente scelto per la propria espansione, la Cina si garantisce gli immensi cantieri con «operatori» di imprese che fanno comunque capo al potere centrale. E nel mercato della sicurezza hanno tariffe che sbaragliano la concorrenza.

di Fausto Biloslavo

Due «mercenari» cinesi sono stati arrestati a Livingstone, in Zambia, per «addestramento illegale» a una compagnia di sicurezza locale. Nel vicino Zimbabwe altri due contractor di Pechino hanno sparato e ferito il figlio di un parlamentare. In Kenya e Uganda professionisti della sicurezza del Dragone sono finiti nei guai per possesso di materiale bellico e pure di un sistema di intercettazione illegale. Incidenti di percorso dell’espansione delle società di sicurezza del gigante asiatico in Africa.

In Cina esistono 5.800 aziende del genere, che impiegano circa 5 milioni di persone, ma solo 20-25 sono abilitate e hanno la capacità di operare all’estero. Soprattutto in Africa dispiegano 3.200 contractor, «soldati» di professione, un numero che supera i 2.500 caschi blu cinesi impegnati nelle missioni Onu. Le società di sicurezza di Pechino sono solo nominalmente private. Gli operatori provengono dall’Esercito popolare di liberazione o dalle forze di polizia.

La fedeltà al partito comunista è garantita da manager che svolgono una specie di ruolo di commissario politico. «Ciò consente alla Repubblica popolare di espandere la sua impronta militare in Africa senza dover utilizzare le forze armate ufficiali» sottolinea l’esperto di intelligence nel continente, Eren Ersozoglu. Dal 2012 oltre 200 mila lavoratori cinesi sono stati dislocati in Africa per i mega progetti della Via della seta, il sistema economico-infrastrutturale lanciato da Pechino per una penetrazione globale. Diecimila compagnie cinesi operano nel continente più ricco di materie prime generando un giro d’affari di 40 miliardi di dollari l’anno. «L’apertura della base navale a Gibuti nel 2017 è stata la risposta di Pechino a un ambiente che necessitava di maggiore sicurezza per i suoi concittadini e gli interessi nel continente» spiega Francesco Ferrante sul periodico online Analisi Difesa. Il lavoro sul terreno viene eseguito dai contractor cinesi di grandi compagnie. «Per esempio la DeWe security services Co. di Pechino, assunta per proteggere la linea ferroviaria Nairobi-Mombasa da 3,8 miliardi di dollari» spiega Pietro Orizio, esperto di sicurezza, «e l’impianto di liquefazione del gas naturale della Poly-GCL Petroleum Group Holdings in Etiopia». I cinesi hanno cominciato a espandersi nel mercato della sicurezza con la vigilanza armata alle proprie navi che costeggiano l’Africa. La Hua Xin Zhong An (Hxza) è un colosso della scorta ai mercantili al largo della Somalia, dove nel 2019 sono stati sequestrati nove marinai cinesi, e nel Golfo di Guinea che registra il 73 per cento degli attacchi dei pirati nel mondo.

Se Hxza è la prima sul mare, a terra la sicurezza è garantita da Haiwei Dui, nota anche come Overseas service guardian international Co., specializzata nella Via della seta, con 18 filiali all’estero e 2 mila dipendenti che operano in 51 Paesi. La sede africana più importante è in Tanzania. «Con i cantieri sono arrivati anche i contractor» spiega Gabriele Petrone, consigliere per la sicurezza in Africa. «Il lavoro non manca come la ferrovia da Dar es Salaam fino al lago Vittoria, al confine con Uganda e Kenya». Una rigida normativa di Pechino proibisce ai contractor di agire armati in patria e in teoria anche all’estero per evitare incidenti diplomatici. «Gli operatori della sicurezza cinesi sono soliti lavorare disarmati» conferma Orizio «al comando di gruppi o personale locale armato e prendendo in prestito le armi sul posto in caso di necessità». Nel 2016 la De We ha dovuto gestire per ben 50 ore, l’evacuazione di 300 dipendenti della China national petroleum corp, bloccati a Juba, Sud Sudan, dagli scontri tra forze governative e ribelli.

Nel 2015 tre dirigenti della China railway corp vennero uccisi con altri stranieri da un attacco jihadista al Blu Radisson Hotel di Bamako, capitale del Mali. Le società di sicurezza ammettono, come ha riportato Analisi Difesa, che «la raccolta di informazioni relative alle minacce terroristiche attraverso i nostri canali fa parte della routine e condividiamo tali informazioni con le parti interessate per ulteriori elaborazioni e per intraprendere azioni».

Il famoso Erik Prince, «principe» americano dei soldati privati, ha fondato e guidato fino al 13 aprile di quest’anno il Frontier services group, società di sicurezza con base a Hong Kong, specializzata in interventi in Africa, è controllata dal Citic Group, uno dei più potenti conglomerati di Stato cinesi. Nonostante l’alleanza con Prince i contractor del Dragone sono sottopagati e perciò considerati dai colleghi occidentali poco professionali, ma competitivi dal punto di vista economico in Africa. «Un intero team di 12 persone costa tra i 660 e i 950 euro al giorno» fa notare Orizio «quanto un singolo operatore britannico o americano». n

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