L’Occidente è già in corsa per una ricostruzione dell’Ucraina da centinaia di miliardi di dollari. Gli Stati Uniti, oltre al business del gas e delle armi, lanciano il piano anti-inflazione che attrae investimenti a livello globale. Mentre l’Europa rischia la sua industria. E l’irrilevanza, ma sempre «politicamente corretta».
Quando ricevettero l’invito, alcuni rimasero sorpresi, ad altri venne da sorridere. L’elegante cartoncino recitava: «In occasione del 31° anniversario delle forze armate dell’Ucraina l’ambasciatore straordinario e plenipotenziario dell’Ucraina signora Oksana Markarova e l’addetto alla difesa maggiore generale Borys Kremenetskyi richiedono il piacere della vostra compagnia giovedì 8 dicembre 2022 al Ronald Reagan Building in Pennsylvania avenue, Washington». Fin qui nulla di strano, uno dei tanti eventi cui sono chiamati a partecipare nella capitale americana politici, giornalisti, esperti militari e di politica internazionale.
La cosa singolare è che nell’invito erano presenti anche i loghi delle società Northrop Grumman, Raytheon, Pratt & Whitney e Lockheed Martin: le grandi aziende americane della difesa apparivano come sponsor dell’incontro. «È davvero bizzarro» ha confidato uno dei partecipanti al giornalista Jonathan Guyer, che ha raccontato la storia sul sito Vox e ha sottolineato: «La sponsorizzazione esplicita indica quanto siano diventati intimi i principali appaltatori militari con l’Ucraina e quanto possano guadagnare dalla guerra». Come ogni conflitto, l’attacco scatenato da Vladimir Putin all’Ucraina provoca morte e distruzioni. Ma rappresenta anche un’occasione di guadagno, diretto o indiretto, per alcune imprese. E pur svolgendosi in Europa, vede le aziende americane avvantaggiate, considerato che dal Secondo dopoguerra gli europei hanno appaltato agli Stati Uniti la loro difesa, destinando solo briciole del loro Pil agli investimenti in armi. Ma è solo uno degli aspetti della drammatica situazione in cui si trova oggi l’Europa, costretta a rincorrere l’amministrazione di Joe Biden sul fronte degli aiuti alle società green, mentre paga l’energia molto di più, è a corto di materie prime ed è sempre più schiacciata tra le due superpotenze guidate a Washington e Pechino.
Tra i maggiori vincitori della guerra ci sono dunque gruppi americani come Lockheed Martin (più 14 per cento in borsa negli ultimi sei mesi) che produce non solo i caccia F-16 ambiti da Kiev, ma, insieme a Raytheon (più 9 per cento negli ultimi sei mesi), costruisce i missili anticarro Javelin utilizzati dagli ucraini. Lockheed realizza anche il sistema missilistico ad alta mobilità Himars, fondamentale per l’esercito di Volodymyr Zelensky. L’esercito degli Stati Uniti ha assegnato a Lockheed 521 milioni di dollari di contratti per rimpolpare i propri arsenali dopo le forniture a Kiev. Raytheon, da parte sua, ha appena vinto un contratto da 1,2 miliardi di dollari per sei sistemi missilistici. «Nei primi 10 mesi della guerra, l’Ucraina ha consumato tanti missili antiaerei Stinger quanti Raytheon ne fa in 13 anni» sottolinea la testata specializzata Breaking Defense. Anche alcune aziende europee stanno guadagnando grazie alla guerra, in previsione di un aumento delle spese militari nel Vecchio continente: per esempio la tedesca Rheinmetall, che fabbrica il carro armato Leopard, o il produttore di munizioni norvegese-finlandese Nammo hanno beneficiato di un aumento degli ordini.
L’italiana Leonardo, presieduta de Alessandro Profumo è in grande spolvero: salita in Piazza Affari del 42 per cento negli ultimi sei mesi e con utile in crescita del 58 per cento nel 2022, la società dovrebbe avvantaggiarsi in generale della politica di riarmo europeo e in particolare dell’eventuale fornitura di aerei agli ucraini da parte dell’Italia, che dovrà quindi sostituire i jet con modelli nuovi. Ma rispetto ai numeri americani quelli dell’Unione sono noccioline. Basta pensare che, come mostrano i dati dell’Ukraine support tracker del Kiel Institute, gli Stati Uniti hanno stanziato poco più di 73,1 miliardi di euro per il sostegno all’Ucraina, di cui 44,3 in aiuti militari. Per l’Unione europea, la cifra comparabile è di 54,9 miliardi, dei quali poco più di tre in sistemi di difesa. Per quanto scioccante e sconvolgente, la guerra in Ucraina verrà rubricata in futuro come un incidente della Storia che ha coinvolto un piccolo Paese europeo e una potenza declinante, sullo sfondo di uno scontro ben più significativo e duraturo tra Stati Uniti e Cina per conquistare il dominio planetario.
E in questo confronto l’Unione europea è un vaso di coccio sempre più irrilevante. Quando lanciò il Green deal, affrontò con fermezza la crisi del Covid e varò il Next generation Eu da 750 miliardi di euro, l’Europa diede l’impressione di essere all’avanguardia nel mondo e i suoi cittadini si sentivano orgogliosi di appartenere ad una comunità di Paesi attenti al welfare, ai diritti civili, all’ambiente. Ma proprio la pandemia e la transizione energetica hanno messo in evidenza tutti i limiti del continente: la dipendenza dal gigante cinese e da altri Paesi asiatici per la fornitura di componenti strategici come i microchip, i pannelli solari, le batterie, le terre rare. Poi la ripartenza più rapida del previsto dell’economia mondiale ha fatto salire i prezzi del gas e ancora oggi, superate le impennate provocate dalla guerra in Ucraina, il metano non è tornato ai livelli pre-Covid. L’Europa si è trovata a pagare l’energia più dei due concorrenti globali e lo scontro con la Russia ha peggiorato le cose.
A guadagnarci sono ancora gli Stati Uniti: se fino al 2016 le esportazioni di gas naturale liquefatto (gnl) dagli Usa all’Europa erano vicino allo zero, nel 2020 erano salite a oltre 20 miliardi di metri cubi, nel 2021 sfioravano i 30 miliardi per poi esplodere a 75 miliardi nel 2022. Soldi che finiscono nelle tasche di società come Cheniere Energy, il maggior produttore americano di gas liquefatto e il secondo a livello mondiale, o come New Fortress Energy che ha realizzato il primo impianto di produzione di gnl della Florida. E gli americani pagano il gas molto meno di noi europei. A guerra e caro-energia si è aggiunta un’ulteriore mazzata per l’Europa: l’Ira, l’Inflation reduction act firmato il 16 agosto 2022 da Biden. È un provvedimento che si propone di trasformare gli Stati Uniti nel maggiore produttore mondiale di fonti energetiche green: pannelli solari, batterie per auto elettriche, stazioni di ricarica, lavorazione delle terre rare. Sul piatto vengono messi aiuti per 370 miliardi di dollari in dieci anni, con un effetto traino valutato in circa 1.700 miliardi.
Aiuti destinati però a chi produce negli Stati Uniti o nei Paesi con cui Washington ha accordi di libero scambio, come Messico o Canada. A questa enorme massa di sussidi si aggiunge il Chips for America Act, approvato in luglio per rafforzare la produzione locale di semiconduttori. L’Ira è estremamente efficace e semplice e ha avuto l’effetto di provocare immediatamente un esodo di imprese straniere verso gli States: a sette mesi dal varo del piano più di cento società dell’indotto dell’auto elettrica hanno annunciato investimenti sul suolo americano. Il produttore svedese di batterie Northvolt ha avvertito che potrebbe preferire gli Usa alla Germania per costruire la sua prossima gigafactory. La spagnola Repsol quest’anno destinerà il 40 per cento delle spese di bilancio agli investimenti in America e soltanto il 25 per cento a quelli in patria. L’amministratore delegato di Airbus, Guillaume Faury, ha detto che i fornitori europei del gruppo aerospaziale stanno iniziando a trasferirsi negli Stati Uniti per sfuggire all’impennata dei costi energetici e ha esortato i governi a fornire agevolazioni fiscali per fermare questo flusso.
Faury ha affermato che la legge statunitense è «molto favorevole» per i fornitori del settore aeronautico, attirati dai sussidi per i programmi energetici a zero emissioni di carbonio, tra cui l’idrogeno verde. Di fronte al rischio di perdere pezzi di industria e miliardi di investimenti nei prossimi anni, l’Europa cerca di correre ai ripari. La Commissione ha deciso giovedì 9 marzo un allentamento straordinario delle regole sugli aiuti di Stato, che rimarrà in vigore fino alla fine del 2025. L’obiettivo è consentire agli Stati membri di contrastare la concorrenza di Cina e Stati Uniti. Il 10 marzo la presidente della Commissione Ursula von der Leyen è volata a Washington per incontrare Biden e convincerlo a non discriminare le imprese europee, promettendo in cambio di ridurre la dipendenza da Pechino. Il risultato è un progressivo schiacciamento politico dell’Ue al fianco degli Usa, mentre l’economia europea è sempre meno competitiva a causa dei suoi costi energetici e sociali, più alti rispetto a Stati Uniti e Cina. All’orizzonte si profila per l’Europa un destino di elegante e irrilevante declino.
Quelli che continuano a fare business in Russia
Sono centinaia le aziende straniere che continuano a operare in Russia nonostante l’invasione in Ucraina. Sono imprese che non violano alcuna legge, poiché operano in settori non colpiti da embargo. Ma di certo non fanno una bella figura. Ed è proprio questo l’obiettivo del professore Jeffrey Sonnenfeld dell’Università americana Yale: rendere pubblico il loro nome per spingerle a non fare più affari con i russi. Dal 28 febbraio 2022 il professore pubblica sul sito dell’università l’elenco delle aziende che si sono ritirate dalla Russia, e di chi invece è rimasto. Si tratta di oltre mille società suddivise in cinque categorie classificate dalla A alla F (la E non c’è): ottengono il voto più alto le imprese che interrompono totalmente gli impegni con i russi e lo hanno conquistato per ora 520 gruppi di cui cinque italiani (Autogrill, Eni, Enel, Generali e Iveco). Seguono poi gli elenchi delle aziende che, con varie gradazioni, stanno riducendo la presenza in Russia.
Infine la quinta categoria, F, raggruppa chi continua il «business as usual» nel Paese guidato da Putin. Di questo gruppo fanno parte 236 società di cui ben41 cinesi, 28 americane, 27 tedesche, 27 francesi. Dodici sono le italiane: Ariston Group, Benetton, Boggi, Buzzi Unicem, Calzedonia, Cremonini Group, De Cecco, Diesel, Fenzi Group, Fondital, Perfetti Van Melle e UniCredit. A queste imprese abbiamo chiesto un commento. Alcune, come Cremonini, ricordano «off-the-record» di avere da anni una attività produttiva in loco e di non voler danneggiare i lavoratori. UniCredit precisa che «il nostro approccio alla Russia resta lo stesso, siamo impegnati in un processo di riduzione del rischio coerente e ordinato. Il gruppo continua a focalizzare le operazioni principalmente sui suoi clienti internazionali. L’esposizione transfrontaliera totale di UniCredit è stata ridotta del 66 per cento (-4,1 miliardi di euro)».
Buzzi Unicem replica di aver «deciso di cessare qualsiasi coinvolgimento operativo nella attività svolta dalla controllata Slk Cement nel Paese». Il gruppo Perfetti Van Melle (settore alimentare) contesta la posizione nella classifica sostenendo che l’azienda «sarebbe da collocare nella categoria “scaling back” che prevede una riduzione del main business» visto che «in Russia ogni investimento, attività promozionale e pubblicitaria, si è fermato, continuando solo le attività di base». Anche il gruppo Fenzi (settore vetrario) si difende: «Sin dall’inizio del conflitto abbiamo subito fermato il piano di investimenti in Russia, cancellato partecipazioni alle manifestazioni fieristiche e iniziato un drastico ridimensionamento delle attività produttive». (G.F.)
