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Cercasi dipendente disperatamente

Cercasi dipendente disperatamente

Invece dei temuti licenziamenti, le aziende nel post-pandemia sono tornate ad assumere. Ma scarseggiano figure come saldatori, operai tessili e camerieri. Ma anche gli ingegneri.


Un drammatico tsunami si aspettavano i sindacati dopo la fine del blocco dei licenziamenti deciso dal governo. In maggio il segretario della Cgil, Maurizio Landini, paventava «il rischio di migliaia di licenziamenti». Il leader della Uil, Pierpaolo Bombardieri rincarava la dose avvertendo che «centinaia di migliaia di persone rischiano di perdere il proprio posto di lavoro». Il crescendo raggiungeva il suo culmine con le previsioni di Luigi Sbarra, numero uno della Cisl, secondo il quale mezzo milione di lavoratori avrebbero corso il pericolo di essere sbattuti fuori dalle aziende.

A nulla servivano le rassicurazioni di chi con il mercato del lavoro ha a che fare tutti i giorni. Come Stefano Colli-Lanzi, fondatore e amministratore delegato Gi Group, che in un’intervista pubblicata il 23 giugno su Panorama dichiarava: «Il rischio di uno tsunami c’è, ma di richieste di personale, non di licenziamenti». Ed è così che è andata.

A parte i casi di crisi che si trascinano da tempo (alcuni gravi come quello della Gkn di Firenze, costretta dal giudice a ritirare le lettere di licenziamento), il mercato del lavoro è ripartito alla grande sulla scia del rimbalzo del Pil e della riapertura di negozi, bar e ristoranti. «Più o meno i tavoli di crisi al ministero dello Sviluppo sono rimasti gli stessi» commenta Francesco Baroni, country manager di Gi Group Italia, «mentre dal nostro osservatorio vediamo una forte ripresa della richiesta di lavoratori, le imprese mostrano di avere molta fiducia in questo governo e nelle opportunità offerta dal Pnrr».

Infatti, a soffrire di più sono le società che si occupano di ricollocare i lavoratori licenziati, visto che la «materia prima» è scarsa. Del resto, come sottolinea il centro studi della Confindustria, i primi dati disponibili – per ora solo per la regione Veneto – mostrano che in luglio e agosto il numero di licenziamenti per motivi economici di occupati a tempo indeterminato nelle imprese industriali (escluso il settore moda) è stato pari a 852 unità, cioè meno rispetto ai valori registrati nello stesso periodo sia del 2018 (1.142) sia del 2019 (1.268).

Un quadro rassicurante, almeno per ora, confermato anche dai dati Istat: nel secondo trimestre di quest’anno l’occupazione è cresciuta di 523.000 unità, paragonato allo stesso periodo del 2020. Il tasso di occupazione è salito in luglio al 58,4% riavvicinandosi ai livelli pre-Covid mentre la disoccupazione è scesa al 9,3% dopo aver toccato il 10,2 in gennaio (però era al 13% nel 2014). All’appello mancano ancora 678 mila occupati rispetto al 2019, ma la tendenza fa ben sperare.

Non solo. Un dato interessante è quello dei posti vacanti, il cui tasso dell’1,8% ha toccato un livello mai registrato dal 2016 (anno di inizio della serie). In altre parole, non si riesce a trovare abbastanza personale. Quindi adesso di ondate di licenziamenti non se ne parla più. «Non c’è nessun segnale di allarme, i sindacati hanno sbagliato analisi» commenta il giuslavorista Giuliano Cazzola. «Ora sono in agitazione per alcune crisi aziendali e ripetono lo stesso errore, cioè cercare di tenere il lavoratore legato a un impresa che è in difficoltà invece di favorire il passaggio a un’azienda sana, riconvertendo i lavoratori».

Un vizio che traspare dalle due nuove clausole richieste dai sindacati per ampliare il raggio di azione della cassa integrazione: che sarebbe attivabile anche in caso di prospettata chiusura della società o per liquidazione giudiziaria, ma ciò allungherebbe l’agonia dell’azienda e i tempi di ricollocamento dei lavoratori. E dire che oggi le imprese hanno una gran fame di personale: l’Employment outlook survey di ManpowerGroup sulle intenzioni dei datori di lavoro italiani riguardo alle nuove assunzioni mostra che il 43 per cento degli intervistati prevede nel quarto trimestre 2021 un aumento dell’organico, a fronte di un 18 per cento che dichiara un calo nelle assunzioni e un 36 per cento che non si aspetta alcuna variazione.

L’indice di previsione netta sull’occupazione si attesta a un più 25 per cento e si tratta della previsione migliore per l’occupazione dal 2003, anno del primo sondaggio. Un altro dato incoraggiante arriva dall’indagine Excelsior realizzata da Unioncamere e Anpal, secondo la quale nel trimestre settembre-novembre 2021 le aziende intendono assumere un milione e mezzo di lavoratori: il 23,5 per cento in più rispetto all’analogo trimestre del 2019. In particolare, l’industria programma 436.000 inserimenti, mentre il settore dei servizi ne prevede oltre un milione.

Le maggiori opportunità di lavoro sono offerte dal comparto del commercio (279.000 assunzioni programmate nel trimestre), da quello dei servizi alle persone (188.000) e dai servizi legati alla ristorazione e al turismo (192.000). La domanda di lavoro è trainata prevalentemente dai contratti a tempo determinato con 275.000 unità, seguiti dai contratti a tempo indeterminato (109.000) e poi da altre forme contrattuali.

Anche sul fronte delle ricerche online del personale i segnali sono positivi: come mostra l’Osservatorio sul mercato del lavoro in somministrazione di Jobtech, prima agenzia italiana per il lavoro digitale, il primo semestre si è chiuso con un aumento complessivo del 62% degli annunci di lavoro disponibili su internet. Parallelamente, negli ultimi sei mesi si è registrato un calo del 9,6% del numero di persone in cerca di una nuova opportunità lavorativa. L’analisi è stata condotta su un campione di 60.000 utenti attivi sui portali verticali dell’agenzia e sugli annunci presenti, nello stesso periodo, sui principali motori di ricerca di lavoro.

Il problema è che le imprese fanno fatica a trovare candidati. Sarà per la mancanza di personale preparato, sarà per l’effetto del reddito di cittadinanza o perché a volte gli stipendi sono troppo bassi, sta di fatto che per più di un terzo delle assunzioni programmate vengono segnalate difficoltà di reperimento. In particolare, mancherebbero operai specializzati (addirittura uno su due), dirigenti, lavoratori specializzati in materie tecniche e scientifiche.

Le figure di più difficile reperimento sono fonditori, saldatori, lattonieri, calderai, montatori di carpenteria metallica, fabbri ferrai, costruttori di utensili e assimilati, artigiani e operai del tessile e dell’abbigliamento. Complicati da reperire anche tecnici informatici e delle tlc così come specialisti in scienze matematiche, informatiche, chimiche, fisiche e naturali e ingegneri. Per i laureati nei vari indirizzi di ingegneria e per quelli nelle discipline medico-sanitarie, quasi la metà delle assunzioni previste dalle imprese sono di difficile reperimento; una quota analoga (48,3%) riguarda i diplomati nell’indirizzo meccanica, meccatronica ed energia, mentre supera il 50 per cento la difficoltà a trovare diplomati negli indirizzi edile e meccanico.

Com’è prevedibile, a incontrare i maggiori ostacoli sono le imprese delle regioni del Nord Est, seguite da quelle del Nord Ovest, del Centro e infine quelle del Sud. Morale: una delle chiavi per far ripartire l’occupazione e l’economia è la formazione. Ed è su questo che dovrebbe concentrarsi l’azione del governo e dei sindacati, più che assumere nuovi navigator o cercare di salvare a tutti i costi aziende inefficienti.

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