Il Paese sudamericano, che rischia un nuovo devastante default (a causa di debiti internazionali per 75 miliardi di dollari), ha accentuato ancora di più la sua dipendenza economica da Pechino. Dando in cambio l’adesione alla nuova Via della seta, e l’appoggio alle mire cinesi su Taiwan.
Il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha trascorso molto tempo chiamando alti funzionari in America Latina per discutere una nuova iniziativa per la sicurezza globale del presidente Xi Jinping, proposta per la prima volta nel suo discorso di aprile, al Forum Boao». Così il South China Morning Post di Hong Kong, lo scorso 20 maggio, dava la notizia che lo stesso ministero degli Esteri confermava il giorno dopo. Pechino, che ha come obiettivo indebolire «l’unilateralismo e l’eccessivo perseguimento dell’interesse» degli Stati Uniti, riproporrà il tema di questa non meglio precisata «nuova sicurezza globale» al prossimo vertice dei Brics, il gruppo delle economie emergenti di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, in programma online, causa Covid a Pechino, il 24 giugno prossimo.
E il presidente ha insistito affinché per la prima volta partecipi anche l’Argentina, che nella capitale cinese è stata già accolta, nei mesi scorsi, nella sua Nuova Banca di Sviluppo, con sede a Shanghai e alternativa a Fondo monetario internazionale e Banca mondiale. L’amore di Xi per Buenos Aires non deve stupire ed è ricambiato da Cristina Kirchner, la vicepresidente argentina che considera Pechino il «sistema capitalistico di maggior successo al mondo». Ancor di più dal presidente Alberto Fernández, che rivolgendosi a Xi, lo scorso 5 febbraio, gli ha addirittura detto: «Se tu fossi argentino, saresti un peronista».
La frase di Fernández testimonia quanto il leader del Paese del «Cono Sur» consideri Jinping come uno della sua stessa squadra, e poco importa la questione assai critica dei diritti umani. Che passano in second’ordine quando occorre salvare la proprio economia al collasso, con un’inflazione di oltre il 60 per cento, tra le più alte al mondo, e la metà della popolazione precipitata nella povertà durante la pandemia.
Mai come adesso Buenos Aires ha un bisogno disperato di investimenti e prestiti in yuan. Le riserve nette della sua banca centrale sono infatti ai minimi storici e un nuovo default, peggiore di quello del 2001, sarebbe alle porte, a detta di Moody’s. Certo, il Fmi ha approvato lo scorso 25 marzo una proroga di 30 mesi dei pagamenti di 44 miliardi di dollari dovuti dall’Argentina, ma è anche consapevole che «i rischi sono eccezionalmente elevati». Il problema per Fernández è che gli esborsi dovuti nei prossimi mesi non lasciano margini di manovra. Inoltre i debiti non sono solo con l’Fmi ma anche con altri organismi internazionali. Si tratta in totale di circa 75 miliardi di dollari da rimborsare, di cui 33 miliardi in valuta estera. Se per il debito in pesos, il governo può contare sugli anticipi di cassa della sua banca centrale, la solvibilità di quello in dollari è garantita solo dalle riserve valutarie del Paese, oggi quasi azzerate.
Per questo motivo Fernández ha colto al volo la mano tesa di Xi per rafforzare ulteriormente la dipendenza economica argentina dal Dragone. Una dipendenza di lunga data se si pensa che già nel 2020 il principale settimanale di Buenos Aires, Noticias, lanciava in copertina il termine «ArgenChina», sviluppando il concetto con la definizione «Le nuove relazioni carnali» e mettendo come sfondo una foto del presidente con un caratteristico copricapo cinese. Dal 2014, del resto, grazie a un accordo firmato dall’allora presidente argentina Cristina Fernández, la Cina gestisce una stazione radar in Patagonia, usata sia per il programma lunare cinese che per svolgere attività di intelligence contro gli Stati Uniti. Dal 2019, poi, Pechino è diventato il principale partner commerciale dello Stato sudamericano, superando persino il confinante Brasile nelle importazioni. La Cina sta inoltre finanziando la costruzione del terzo impianto idroelettrico più grande del Paese e Pechino mette soldi anche nella struttura logistica polare argentina sul Canale di Beagle, che può fungere da porta d’accesso all’Antartide ed è vicina allo Stretto di Magellano e al Passaggio di Drake, due punti strategici per il traffico marittimo globale. Per non dire che l’Argentina è in predicato di comprare jet da combattimento JF-17 di fabbricazione cinese, acquisto che aumenterà l’interoperabilità delle forze aeree dei due Paesi, offrendo a Pechino l’occasione di aumentare la sua presenza militare nella nazione del tango.
Niente di ciò che Fernández ha da offrire era però così prezioso per Xi come l’adesione del suo Paese alla Nuova Via della Seta, annunciata quest’anno. Il progetto sta incontrando la forte resistenza dei tre giganti regionali, Brasile, Messico e Colombia, ma con l’Argentina la Cina espande ulteriormente il proprio peso economico e geopolitico sull’America latina. Buenos Aires è anche uno dei Paesi latinoamericani incorporati nell’Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib, secondo il suo acronimo in inglese), che finanzierà il collegamento del passaggio internazionale di San Francisco, un asse tra la regione argentina della Catamarca e quella cilena di Atacama, con accesso diretto al Porto della Caldera e all’asse Asia-Pacifico. È il luogo dove si trovano le maggiori riserve di litio al mondo, che fanno gola a Pechino e sono strategicamente fondamentali per implementare la rivoluzione verde che vuole pensionare al più presto la dipendenza del settore automobilistico e industriale dal petrolio.
Le cose stanno dunque cambiando rapidamente grazie alla crescente potenza di fuoco del gigante asiatico in questo quadrante del mondo. Fino a una ventina d’anni fa, infatti, Buenos Aires era considerata, come il resto del continente, il backyard, il «giardino dietro casa» degli Stati Uniti. Oggi, quello stesso termine calza a pennello per il nuovo dominus della regione latinoamericana, la Cina appunto. E non è un caso che l’Argentina abbia annunciato di recente anche l’appoggio alla sovranità cinese su Taiwan, mentre in cambio Pechino ha dichiarato il suo sostegno alla rivendicazione dell’Argentina sulla sovranità delle isole Falkland, Las Malvinas come le chiamano a Baires. «La parte argentina afferma la sua adesione al principio di una sola Cina, mentre la parte cinese ha ribadito il suo sostegno alle richieste per il pieno esercizio della sovranità argentina nella questione delle isole Falkland», si legge nel testo di questa storica intesa tra Fernández e Xi, siglata lo scorso 5 febbraio, a testimonianza di come l’«ArgenCina» sia ormai una realtà. Per non dire del finanziamento da 8 miliardi di dollari per costruire la centrale nucleare di Atucha III, nella provincia di Buenos Aires e del megaprestito da 23,7 miliardi di dollari di Pechino, che amplia così la sua Via della Seta anche sulle sponde del Rio de la Plata.
Se l’Argentina è la più grande nazione latinoamericana a partecipare al progetto di investimento di punta della Cina, una cosa è certa: il suo presidente è «un funambolo» perché oggi negozia contemporaneamente con la Cina, con l’Fmi e con gli Usa (che controllano il Fondo e a cui dovrà spiegare il suo abbraccio al Dragone). Il problema è che «fare il funambolo è possibile, ma richiede un’abilità politica e diplomatica che Buenos Aires non sembra ancora dimostrare pienamente» analizza Esteban Actis, professore di Relazioni internazionali all’università nazionale del Rosario e autore del libro La disputa per il potere globale. In altre parole, l’allineamento pressoché totale dell’Argentina sugli interessi cinesi, con la sua promessa di investimenti miliardari, richiede una diplomazia attiva e mirata, non frasi improvvisate come quella del presidente Fernández nel suo ultimo viaggio in Russia, pochi giorni prima dell’invasione dell’Ucraina, dove aveva offerto a Vladimir Putin il suo Paese come «porta d’accesso» all’America Latina.
Per Carlos Ruckauf, ex vicepresidente nell’era di Carlos Menem ed ex ministro degli Interni e degli Esteri, «sono scomparsi i punti salienti del nostro rapporto con il mondo, ossia la difesa dei diritti umani, la democrazia ed evitare allineamenti acritici con altre nazioni, e oggi la Casa Rosada è subordinata agli interessi strategici della Cina». Unico risultato: essere finiti nelle braccia di Pechino per salvare l’Argentina dall’ennesimo default.
