In Italia si realizzano sempre meno veicoli e la domanda di vetture elettriche non decolla. Ma per salvare la componentistica occorre aumentarne la fabbricazione. Un obiettivo difficile da raggiungere in un Paese alle prese con il caro energia e poco attrattivo per gli investimenti.
Se chiedessimo a una casa cinese di venire a produrre automobili in Italia? Invitare a casa nostra il «nemico» per farlo banchettare sul mercato europeo suona come un’eresia. Ma di fronte al progressivo prosciugamento della produzione di veicoli nel nostro Paese e al rischio di veder morire il settore della componentistica, forse si potrebbe davvero far cadere il tabù. «Dobbiamo avere in testa che l’obiettivo è salvare la componentistica e allora perché non attraiamo noi in Italia l’investimento di un player cinese? Piuttosto che produrre le macchine elettriche a basso costo da loro e importarle, non è meglio che vengano qui?» ha riconosciuto Federico Visentin, presidente di Federmeccanica, al Corriere della Sera.
Più prudente, Gianmarco Giorda, direttore generale dell’Anfia, l’associazione dell’automotive italiano, è convinto che sia utile far venire in Europa le case cinesi per sostenere la produzione a livello continentale ma è anche scettico sul fatto che possano scegliere l’Italia: «Costi energetici troppo alti, burocrazia, scarsa competitività del sistema-Paese. Abbiamo oggettive difficoltà ad attirare produttori stranieri». Per ora le case cinesi hanno messo un piede in Europa attraverso l’acquisizione di brand più o meno decotti e poi rilanciati, come Volvo e Lotus (rilevate dalla Geely) o Mg (Saic), oppure esportando i loro veicoli prodotti in Asia. La sfida è conquistare il mercato delle auto green, che rappresentano il futuro in vista del blocco delle vendite di vetture inquinanti dal 2035.
Per raggiungere l’obiettivo, alcuni gruppi intendono aprire stabilimenti nel Vecchio continente. Byd, uno dei maggiori produttori al mondo di auto elettriche e di batterie, nel quale ha investito il famoso finanziere Warren Buffett, è in trattativa con diversi Paesi, incluso il Regno Unito, per aprire una fabbrica che produca sia batterie che veicoli. Nio, che ha appena lanciato i suoi modelli in Germania, Danimarca, Svezia e Paesi Bassi, ha già realizzato in Ungheria un impianto di produzione di «swap station», cioè stazioni robotizzate per la sostituzione delle batterie al posto della ricarica con il cavo, e prevede di costruire uno stabilimento di vetture una volta superate le 200 mila auto vendute. Anche Great Wall sta cercando un sito di produzione europeo. Oggi la presenza dei cinesi sul mercato europeo è ancora modesta: secondo la società di consulenza automobilistica francese Inovev, Pechino ha conquistato circa il 5,8 per cento del segmento di veicoli elettrici. Ma si prevede un forte aumento nei prossimi anni grazie alla produzione di modelli a basso costo.
Secondo Patrick Koller, a.d. della francese Faurecia, uno dei maggiori produttori di componentistica per automobili, le case cinesi possono costruire un veicolo elettrico a 10 mila euro in meno rispetto ai concorrenti europei, un vantaggio di costo schiacciante. E se non si impongono dei dazi (poco probabile) l’ideale sarebbe trovare il modo di obbligarle a produrre in Europa. L’Italia è il Paese che ne avrebbe più bisogno: considerando solo le automobili (escludendo perciò i veicoli commerciali leggeri), lo scorso anno abbiamo prodotto circa 477 mila vetture contro il milione e 900 mila fabbricate nel 1989. Siamo precipitati al 20° posto al mondo tra i produttori di veicoli e in Europa ci superano di gran lunga non solo Repubblica Ceca, Slovacchia e Spagna, ma perfino la Romania (vedi tabella nell’altra pagina).
Una tragica deindustrializzazione che non ha eguali al mondo e che deriva dal rapporto incestuoso tra Stato e Fiat (ora confluita in Stellantis insieme a Chrysler) e dalla scarsa attitudine del nostro Paese ad accettare i valori della concorrenza. Con il risultato che la Spagna oggi produce tre volte più di noi, grazie alla presenza sul proprio territorio di fabbriche Ford, Mercedes, Renault, Stellantis, Volkswagen. In compenso l’Italia vanta la seconda industria della componentistica d’Europa, dopo la Germania. Un settore formato in gran parte da medie aziende che esportano più o meno il 60 per cento della produzione a case estere e rischiano di esser spazzate via se non si adeguano rapidamente alla transizione verso la mobilità elettrica. «I dati della produzione italiana mostrano come imprese e istituzioni non siano riuscite a intercettare i trend del mercato dell’automotive, quanto a tecnologia, innovazione e costi» ha dichiarato Michele Crisci, presidente dell’Unrae, l’associazione delle case estere presenti in Italia. «La transizione è quindi un’opportunità».
Ma quale opportunità può rappresentare se produciamo poco e le quote di mercato dell’auto elettrica non riescono a decollare? «Siamo arrivati alla “bottom line”» avverte Giorda dell’Anfia. «Scendere sotto le 400 mila auto metterebbe in pericolo l’intera filiera della componentistica». Il ministro delle Imprese e del made in Italy Adolfo Urso ha una bella gatta da pelare: incentivare gli acquisti di vetture a batteria (per ora ancora troppo care) senza favorire le case estere e allo stesso tempo convincere Stellantis a produrre di più in Italia.
Il gruppo guidato da Carlos Tavares ha gioco facile a rispedire la palla nel campo avversario sostenendo che se gli italiani non comprano auto elettriche non è che se ne possano produrre in Italia centinaia di migliaia. E se da un lato Stellantis chiede sostegni al governo per aiutare gli automobilisti della classe media, pur avendo incassato utili per ben 16,8 miliardi, dall’altro Urso ricorda tutti i fondi pubblici arrivati alla casa italo-francese con i contratti di sviluppo per oltre 2,7 miliardi cui si aggiunge quello pluriennale per l’automotive da 8,7 miliardi fino al 2030. Comunque Stellantis sta cercando di mantenere in funzione i principali impianti in Italia, seppur alleggeriti di personale grazie a continui programmi di uscite incentivate: secondo quanto riferisce Ferdinando Uliano, segretario nazionale Fim-Cisl, a Melfi dovrebbero arrivare quattro nuove vetture elettriche che progressivamente soppianteranno le due Jeep e la 500X fabbricate ora; a Mirafiori la 500 elettrica va molto bene ed è stata affiancata da due Maserati a batteria che però hanno qualche ritardo; Pomigliano per ora regge con Panda e Tonale mentre Cassino, dove si producono Giulia, Stelvio e Maserati Grecale è sottoutilizzato ma destinato a diventare l’impianto dei suv premium dell’intero gruppo. Poi c’è Atessa, polo di fabbricazione dei veicoli commerciali leggeri che con una produzione di 206 mila pezzi soffre per la mancanza di componenti ma è ricca di ordini. Infine Stellantis realizzerà a Termoli la gigafactory di batterie, che dovrebbe girare a pieno regime nel 2026: il 10 marzo è previsto un incontro con i sindacati. «Aumentare la produzione in Italia è fondamentale» afferma Uliano. «Abbiamo la capacitò produttiva, ma mancano i nuovi modelli: non credo che nei prossimi anni si possa arrivare a 800 mila veicoli fabbricati in Italia».
Probabilmente il governo non dovrebbe ripetere l’errore di incentivare anche le auto a benzina e diesel, come ha fatto con l’ultimo intervento, ma concentrarsi su aiuti destinati alla produzione di veicoli a batteria: negli Stati Uniti il maxi piano Inflation reduction act prevede, tra l’altro, due miliardi di dollari in sovvenzioni per la conversione degli impianti nella produzione di veicoli elettrici e 20 miliardi di dollari in prestiti per la fabbricazione di veicoli non inquinanti. «Al posto degli incentivi io sceglierei degli strumenti di politica industriale» conferma Giorda «per aiutare chi già produce in Italia o chi vuole venire a farlo, rispettando le regole europee sugli aiuti di Stato. Altrimenti l’Italia non sarà più tra i protagonisti dell’auto».