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L’autarchia scende in campo

L’autarchia scende in campo

Il conflitto in Ucraina, grande esportatrice di granaglie, mette a nudo le scelte sbagliate della nostra agricoltura (3 milioni di ettari coltivabili sono stati abbandonati in 20 anni). Da qui però si può ripartire, in cerca di una possibile autosufficienza alimentare.


Ci sono volute le navi da guerra russe nel Mar Nero per mostrare al mondo tutte le fragilità della globalizzazione alimentare. Fino alla fine di marzo la marina di Vladimir Putin teneva bloccati nei porti ucraini centinaia di mercantili carichi di cereali, dando così un’ulteriore spallata a mercati già sconvolti dall’impennata dei prezzi. Il conflitto tra Russia e Ucraina ha coinvolto infatti due tra i maggiori produttori del pianeta: rappresentano circa il 30% del commercio mondiale di frumento, il 32 dell’orzo, il 17 del granturco e oltre il 50 dell’olio di semi di girasole e il 20 dei semi di girasole. La guerra ha ridotto il loro export e ha fatto salire le quotazioni, già in forte aumento per i rincari dell’energia e dei trasporti.

Una situazione che preoccupa l’Europa anche per i risvolti geopolitici sulla sponda meridionale del Mediterraneo. Come ha ricordato il commissario europeo all’Agricoltura Janusz Wojciechowski, le esportazioni ucraine sono fondamentali per l’Europa ma pure per Africa e Medio Oriente. Un recente rapporto della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad) ricorda che tra il 2018 e il 2020 la Russia ha fornito quasi un terzo delle importazioni di grano in Africa, mentre circa il 12% proviene dall’Ucraina. L’Unione europea invece è particolarmente dipendente dall’Ucraina per la fornitura di granturco, colza, frumento, semi di girasole e panelli di girasole, mentre dalla Russia acquista frumento, panelli di colza, semi di girasole, zucchero nonché fertilizzanti.

Pur essendo un’esportatrice netta di grano, per circa 30 milioni di tonnellate all’anno, l’Europa dipende dall’estero per altri tipi di cereali, come il mais, e per la soia. «Sebbene l’Ue non si trovi di fronte a rischi per la sicurezza alimentare» ha dichiarato il vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis «dovremmo comunque risolvere le questioni relative all’accessibilità economica dei prodotti alimentari e adottare misure per rendere la nostra agricoltura e le nostre catene di approvvigionamento alimentare più resilienti e sostenibili per rispondere a crisi future».

Per reagire alla conseguenze della guerra in Ucraina e alle «crisi future», il 23 marzo l’Europa ha varato una serie di misure eccezionali, come la deroga temporanea sui terreni a riposo, che renderebbe coltivabili circa 4 milioni di ettari aggiuntivi negli Stati membri, e un maggiore ricorso agli aiuti di Stato, come è stato fatto nell’emergenza Covid. Interventi accolti con favore dal ministro dell’Agricoltura Stefano Patuanelli e dalle principali organizzazioni degli agricoltori.

L’obiettivo è rendere più autosufficiente il continente, iniettando un po’ di autarchia in un settore che per anni ha ceduto terreno alla globalizzazione. E non in senso figurato: «Negli ultimi vent’anni sono stati abbandonati in Italia circa 3 milioni di ettari, diventati boscaglia, sui 12 milioni di ettari coltivati nel nostro Paese» spiega Alessandro Apolito, responsabile tecnico della Coldiretti. «Un altro milione e mezzo di ettari è stato cementificato. Negli anni Novanta l’Italia era sostanzialmente autosufficiente nei cereali (grano tenero e mais, meno sul grano duro), mentre oggi ne importiamo il 50%. La ragione? In Ucraina e Ungheria grano e mais costano molto di meno. Questo è il risultato delle scelte europee di allargare a Est i confini dell’Unione e di accrescere la globalizzazione degli scambi».

In particolare, dall’estero arriva in Italia circa la metà del mais necessario all’alimentazione del bestiame, il 35% del grano duro per la produzione di pasta e il 64% del grano tenero per la panificazione. Tutto ciò, sostiene il presidente di Coldiretti Ettore Prandini «rende l’intero sistema e gli stessi consumatori in balia degli eventi internazionali. L’Italia oggi è costretta a importare materie prime agricole a causa dei bassi compensi riconosciuti per anni agli agricoltori che sono stati costretti a ridurre di quasi un terzo la produzione nazionale di mais negli ultimi 10 anni durante i quali è scomparso anche un campo di grano su cinque». Prandini punta l’indice contro «quelle industrie che per miopia hanno preferito continuare ad acquistare per anni in modo speculativo sul mercato mondiale, approfittando dei bassi prezzi degli ultimi decenni, anziché garantirsi gli approvvigionamenti con prodotto nazionale».

Ora però il vento è girato e la resa agricola in Italia può aumentare riducendo la nostra dipendenza dall’estero. Un primo passo è rappresentato dallo sblocco di quei terreni messi a riposo su richiesta dell’Europa: si tratta di circa 200.000 ettari che per motivi di sostenibilità gli agricoltori non potevano coltivare per un certo periodo. Ora invece, di fronte all’emergenza guerra e prezzi, quei terreni possono essere lavorati. Però rappresentano solo il 2% dei campi italiani. «Noi stimiamo che aggiungendo a questi anche parte dei terreni abbandonati negli anni passati, si potrà arrivare a un milione di ettari in più» precisa Apolito. Questo significa produrre 75 milioni di tonnellate di cereali aggiuntivi e avvicinarci alla soglia di autosufficienza.

È fondamentale però il ruolo dell’industria alimentare che dovrebbe stringere accordi di filiera con gli agricoltori, in modo che quest’ultimi abbiano il giusto riconoscimento del loro lavoro. Come ha fatto Barilla, che offre ai consumatori una linea di pasta prodotta con grano al 100% italiano. Senza peraltro impattare sul prezzo finale di vendita. Apparentemente la ritirata europea dal fronte della globalizzazione alimentare ha una serie di effetti positivi: il continente dipende meno da economie esterne, rilancia il settore agricolo offrendo nuove opportunità di lavoro, riduce i trasporti.

Ma non tutti sono soddisfatti: Angelo Gentili, responsabile nazionale agricoltura di Legambiente, teme che sulla spinta dell’emergenza si indebolisca la strategia europea verso un sistema alimentare equo, sano e rispettoso dell’ambiente. Mentre l’associazione Slow Food è preoccupata per l’aumento della produzione di mangimi invece che di cibo per le persone. Paure comprensibili. Ma con la reazione europea alla crisi ucraina si potrebbero ottenere fertilizzanti da fonti organiche piuttosto che da processi chimici, per esempio. E chissà, magari allungare i suoi effetti fino in Amazzonia, spingendo il Brasile a ridurre lo sfruttamento dei terreni, diminuendo la coltivazione di derrate da esportazione dirette verso l’Europa.

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