Gli effetti del Coronavirus si vedranno nel mercato del lavoro che, anche «per colpa del digitale», muterà diventando agile e fluido. Ma lascerà a casa migliaia di persone. Ecco perché bisogna attivare al più presto il Recovery Fund.
Le previsioni sulla ripresa economica in Europa ieri riconfermate dal Fondo Monetario mostrano come la caduta del 2020, pari al 9,3 per cento del Pil, verrà recuperata in due anni e si tornerà ai livelli del 2019 probabilmente nel 2022. Il rimbalzo appare meno veloce di quello che inizialmente era stato previsto e certamente più disomogeneo tra i vari Paesi dell’Unione Europea.I dati sulle vendite al dettaglio evidenziano una certa ripresa dei consumi, e quindi della domanda interna, mentre, ovviamente, sono sostanzialmente ferme le esportazioni ed i flussi del commercio mondiale. Ciò rende meno pronunciata la ripresa. Una minore velocità di uscita dalla crisi produce anche un minore assorbimento della disoccupazione. Ne consegue che per un più lungo periodo di tempo dovremo convivere con un più alto tasso di disoccupazione. A ciò si aggiunga che la pandemia sta accelerando alcuni mutamenti strutturali del mercato del lavoro (in primis la digitalizzazione) contribuendo anche per questa via ad una crescita della disoccupazione. Tutto ciò mette sotto pressione -finanziaria e amministrativa- il sistema del welfare state e degli strumenti di protezione dalla disoccupazione. Al di qua e al di là dell’Atlantico ci si interroga per quanto tempo potrà andare avanti un sostegno illimitato alle persone che hanno perso un posto di lavoro e quali sono gli strumenti migliori per uscirne senza disperdere capitale umano. La strumentazione che Stati Uniti ed Europa hanno costruito in questi mesi pure se ha lo stesso obiettivo – sostenere il reddito di coloro che perdono il posto di lavoro- si differenzia per il fatto che negli Usa sono stati preferiti sussidi di disoccupazione “puri” mentre in Europa gli schemi adottati sono quelli come la cassa integrazione, vale a dire sostegni monetari mantenendo il legame con l’azienda. Il costo monetario per lo Stato rimane lo stesso ma il punto che deve essere osservato è l’impatto sui meccanismi del mercato del lavoro e sulla maggiore efficienza in termini di ripresa delle attività. L’esercizio è molto complesso e andrà fatto sul medio termine. Ciò che nell’immediato si può dire è che molto dipende dalla reattività del mercato del lavoro, dalla sua fluidità e dai meccanismi di domanda e offerta che si originano. Se il mercato fosse trasparente e allocasse sulla base delle convenienze e delle efficienze, il modello americano potrebbe rivelarsi più efficiente perché ricolloca i lavoratori nelle imprese che hanno resistito alla crisi, nei mercati che riprendono le attività e dovrebbe così aumentare la produttività. Il modello europeo, invece, pure nella nobile intenzione di salvare le imprese da fallimenti potrebbe generare sacche di inefficienza e di bassa produttività, lasciando sul mercato per un lungo tempo imprese che non sono più in grado di essere competitive o adatte alle nuove esigenze/produzioni dl momento. Così sarebbe in una situazione di crisi normale. La pandemia, però, è una crisi congiunturale, improvvisa, completa, che ha costretto al totale blocco tutte le attività, una circostanza che non si è mai verificata, neppure negli anni più bui della guerra e o della Grande depressione del ’29. Ne deriva che è difficile interpretare come si riaggiusteranno le attività produttive e come si riconfigurerà il mercato del lavoro. Potrebbe essere che al termine le due strategie adottate non siano troppo differenti negli esiti. Ciò che, però, è immediatamente evidente è la necessità di avere un dispositivo efficace di politiche attive del lavoro e una strategia sulle competenze. Ambiti nei quali, l’Italia, nonostante le parziali riforme disegnate, appare in ritardo sia rispetto agli Stati Uniti sia rispetto agli altri Paesi europei. Ecco perché occorre rapidamente attivare l’aiuto dei fondi europei, presentare un piano di riforme ispirato all’attivazione della società e non all’assistenzialismo di Stato per fare ricorso al prossimo Recovery Fund, riorganizzare amministrativamente la macchina del lavoro e del welfare state. Perché la sola cosa che ci accomuna oggi agli Stati Uniti sono i forti ritardi amministrativi nella erogazione degli aiuti ai lavoratori e alla famiglie, non certo una analogia di cui andare fieri.
