Il boom di vendite di lievito «vuol dire che abbiamo più tempo libero, meno lavoro, meno soldi». Francesco Pugliese, amministratore delegato di Conad, dagli scontrini interpreta lo stato del Paese. Ed è molto preoccupato. Perché l’Italia «è come un galeone nella tempesta, ma senza un vero capitano. Dovremmo semplificare, invece complichiamo tutto».
Dottor Pugliese, lei amministra Conad, la più grande catena di supermercati del Paese.
(Sorriso). «Ebbene sì».
Che polso ha dell’Italia dopo il Covid-19?
«Glielo dico con una battuta?»
Certo.
«Mi preoccupa il lievito».
In senso allegorico?
«No, in senso materiale. Stiamo vendendo quintali di lievito in più».
Ed è un brutto segnale?
«Sì. Sono molto preoccupato. E se vuole le spiego anche perché».
Eppure, si potrebbe dire: il ramo alimentare non ha mai smesso di lavorare, e ha aumentato il fatturato. Cosa c’è di preoccupante? (Sorride). «Le rispondo con una immagine: si ricorda che durante la Seconda guerra mondiale c’era la fila davanti ai negozi per il pane?
Certo.
«Lei oggi direbbe che quello era un segnale di salute del Paese?»
Assolutamente no.
«Esatto. Allo stesso modo la fila, metaforica e non, che si è formata davanti ai nostri negozi non è un segnale di salute, ma, in alcuni casi, soprattutto se si sanno leggere i dati è la spia di un problema».
Mi faccia un esempio.
«Se io le dicessi che aumenta enormemente il consumo di generi a lunga conservazione, che diminuisce quello dei prodotti più costosi, che aumenta il consumo di lievito e farina, ma che poi crolla il consumo del pane, lei che cosa direbbe?»
Che la gente si fa il pane a casa da sola.
«Bravo».
Ed è un brutto segnale?
«Io le dico di sì, e per due motivi».
Quali?
«Uno è banale, e riguarda me, cioè Conad. Vendi più pezzi, dal punto di vista teorico, ma perdi valore aggiunto dal punto di vista macroeconomico».
Perché il pane già fatto produce più Pil dei singoli ingredienti del pane sfusi.
«Proprio così. Ma poi c’è un elemento di riflessione che mi riguarda come italiano preoccupato per il suo Paese».
E quale sarebbe?
«La gente ha iniziato a farsi il pane da sola, a casa, perché c’era il lockdown, era divertente, aveva tempo. Ma ora
si faccia una domanda. È normale che questo continui?»
Direi di no, ma mi spieghi perché.
«Perché in una società moderna – sana – non hai il tempo per togliere lavoro al fornaio. E non solo».
Cos’altro?
«Non ti fai l’amuchina da solo a casa, e non scompare anche l’alcol dagli scaffali. Non hai tempo per fare, cioè, quello che l’industria della trasformazione fa per conto tuo da mezzo secolo!»
E quindi quel lievito e quell’alcol ci dicono più di quel che potremmo immaginare.
«Esatto! Ci spiegano che il Paese è ancora spaventato. Che è senza soldi. O che è così spaventato da pensare di dover risparmiare quella piccolissima quota di valore aggiunto: il lavoro del panettiere».
E poi?
«Ci dicono che la gente ha ancora il tempo per stare a casa a fare il pane. Cioè che non è ancora tornata al lavoro, in parte, o per nulla».
Tutto questo riesce a dedurlo solo da un aumento di consumi?
(Pausa. Sguardo penetrante). «Oh, io riesco a capire molto di più, ogni volta che viene battuto uno scontrino».
Ma allora devono metterla subito alla guida di un comitato governativo.
«Per carità di Dio. Mi vuole così male?»
Non la vedo entusiasta.
«Non solo non mi infilerei mai in un comitato, ma penso che questa «comitatite» sia un grave effetto collaterale dell’epidemia».
Perché?
«Perché invece di risolvere, complicano i problemi. Perché siamo messi insieme male. Pensi al comitato Colao».
Lo dice perché mancano le donne?
«Mi faccia dire una cosa politicamente scorretta. Non solo mancano le donne. In un comitato che si dovrebbe occupare della ripartenza del Paese non c’era nemmeno un imprenditore. A lei pare normale?»
Non lo ha nominato Vittorio Colao, il comitato Colao.
«Lo so. Colao è persona degnissima. Ma la “comitatite” è un brutto segnale».
Più del lievito?
«Sì. Perché noi dobbiamo fermare la più grande caduta di Pil della storia italiana, snellire procedure, far ripartire intere filiere. Dobbiamo semplificare, non complicare».
Altrimenti?
«Altrimenti siamo morti».
La sento molto preoccupato.
«Temo che in queste ore l’Italia sia una nave ancora alla ricerca di un nocchiero».
Addirittura?
«Penso di sì. Un galeone in mezzo alla tempesta dovrebbe avere una guida ferma e una ciurma che corre da un albero all’altro con il coltello tra i denti».
E non è così?
«Lei che dice? Se ha tempo le spiego perché».
Francesco Pugliese, amministratore delegato di Conad. Di sé dice scherzando che è come la maga che fa i tarocchi all’angolo della strada: «Lei legge le carte agli italiani, io gli leggo gli scontrini». Meridionale, ironico, pungente. Tu pensi di fargli una intervista, dopo un po’ hai l’impressione che ti stia facendo un esame.
Che cosa dice la fattucchiera di Conad?
«Si ricorda la crisi del 2008? Anche allora, scorrendo con cura maniacale i venduti dei nostri supermercati, rimasi colpito da un segnale apparentemente non grave, ma che per me era un campanello di allarme».
Quale?
«Biscotti secchi, caffè e latte».
Se uno compra i biscotti in teoria ha i soldi.
«Eh, no. Perché già vendevamo tanti biscotti: ma se si impennano questi tre ingredienti c’è un altro motivo».
Perché?
«La gente, colpita dalla crisi, tagliava il bar e faceva più colazione a casa».
Lo stesso ragionamento del lievito?
«Esatto. Cosa facciamo noi quando infiliamo un cornetto in una tazza?»
Ci ricreiamo e compriamo tempo per fare altre cose.
«Cioè produrre. Se smetto di produrre, ammazzo un barista».
Il suo collega Luigi Scordamaglia di Filiera Alimentare lancia lo stesso allarme sui ristoranti.
«Perché è una persona intelligente. Vede, in questi anni – pensi al successo degli chef – il cibo è stato per noi
uno dei sismografi più importanti per capire la società italiana».
Quindi se i locali restano chiusi lei non gioisce perché magari vende più generi per i pasti che si fanno a casa?
«Sarei un imbecille. Intanto perché quando si inizia a stringere la cinghia, poi lo si fa su tutto».
Quindi?
«Un Paese di cassaintegrati presto o tardi è un Paese senza consumi. Un Paese senza consumi muore».
E poi?
«Perché i ristoranti erano il traino delle nostre filiere. Educano i consumi, veicolano innovazione, moltiplicano
i prodotti di qualità».
Sono stati la grande vetrina del cibo made in Italy.
«Esatto. Vai al ristorante e scopri un buon vino. Poi passi al supermercato e te lo ricompri. Intere filiere crollano se la serranda dei ristoranti è abbassata».
E non sarebbe utile che lei, in uno dei super comitati, spiegasse questo?
«Noi al governo queste cose proviamo a spiegarle tutti i giorni. Temo che non le capiscano».
Lo dice proprio lei, uomo di fede progressista?
«Io ho le mie idee, e tutti le conoscono, ma non sono un tifoso. Sono uno che in questo momento, da posizione privilegiata, con qualsiasi governo, direbbe le stesse cose nell’interesse del Paese».
E cioè?
«Attenti perché siamo sul filo. La macchina-Paese non riparte».
Mi fa un altro esempio.
«I licenziamenti bloccati».
Qui parla da datore di lavoro?
«Siamo – anche – uno dei primi distributori di buste paga della nostra filiera. E questo blocco rischia di diventare un boomerang».
Dicono: Pugliese i lavoratori in cassa non li deve pagare. E loro non rischiano il licenziamento, che cosa la preoccupa?
«È come avere un paziente narcotizzato in terapia intensiva. Magari non rischia la vita, ma non guarisce».
Vuole dire che il mercato del lavoro «narcotizzato» dal blocco impedisce di morire ma anche di salvarsi?
«Le imprese che tengono tutti in cassa non sono in salute. Quindi i posti di lavoro reali scompaiono ma non lo vedi. Però quando finisce la narcosi della cassa, il lavoro muore. E poi…»
Cosa?
«Le faccio un esempio nostro. Noi abbiamo appena acquisito il marchio Auchan, e stiamo ristrutturando una intera rete».
È noto.
«Bene, il blocco dei licenziamenti, nel nostro caso, ha congelato un processo concordato con i lavoratori: blocca anche la mobilità volontaria, con i relativi incentivi».
Perché non puoi licenziare neanche chi vuole andar via?
(Sospiro). «Sa cosa significa?»
No.
«Si torna al problema che le dicevo, alla “comitatite”».
Cioè?
«Se tu non hai nemmeno un imprenditore, nella stanza dove decidi, non hai nessuno che te lo dice! Quindi, semplicemente, non ci hanno pensato».
Così quel lavoratore Conad non lo paga…
«Ma la società lo paga. E prima o poi quel conto lo pagheremo tutti».
Faccia un altro esempio.
«Questo mi fa leggermente incazzare».
Di che si tratta?
«I famosi buoni sconto nei supermercati per le famiglie bisognose».
Non è una buona idea?
«Idea bellissima. Solo che il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi».
Non è stata realizzata bene?
«No. Noi esercenti avevano detto al governo: guarda, se fai il buono sconto, noi ci mettiamo sopra un ulteriore 10% di sconto. Però c’è una cosa importante!»
Quale?
«Non bisognava usare la catena dei ticket restaurant, perché per i meccanismi complessi e i relativi alti costi (arrivano al 20%) di quello strumento, non solo non avremmo potuto regalare ai cittadini lo sconto in più, ma avremmo avuto anche difficoltà
a convertire i buoni. Avevamo suggerito di usare tessere prepagate, magari emesse da un ente super partes come Poste italiane: questo avrebbe facilitato il processo di diffusione e uso dei buoni.
E cosa è accaduto alla fine?
«Mi è stato chiesto di mandare un messaggino WhatsApp per spiegare tutto questo a un rappresentante del governo. L’ho fatto. Lei quante righe ha impiegato per spiegarlo ai suoi lettori?»
Tre. Ma lei lo ha mandato il messaggio?
(Sospiro). «Oh, certo. Ma alla fine hanno scelto il sistema ticket restaurant».
Come mai?
«Ah, non ne ho la più pallida idea. Però un Paese in cui ci sono più comitati che decisori, e in cui devi spiegare con un messaggino un problema, a qualcuno che poi non lo capisce, mi creda, è un Paese che non funziona bene».
