L’ultimo capitolo dell’odissea è la liquidazione di Air Italy che sta per lasciare a terra 1.450 dipendenti. Come le banche che manderanno via 30.000 persone. E così l’Italia si ferma.
Pare il titolo di un film: 2020 Odissea dell’ozio forzato. In Italia, dall’inizio della crisi del 2007 a oggi, non solo la disoccupazione è cresciuta di oltre un terzo, ma di mese in mese aumenta una sola categoria di cosiddetti occupati: quelli che lavorano part time e cercano disperatamente di ottenere qualche ora in più. Non a caso, le ore lavorate restano al di sotto dei livelli pre-crisi e questo dato poco noto, che a sua volta riflette la stagnazione economica e un Prodotto interno lordo inchiodato, è una delle fotografie più implacabili di una nazione dove nulla si muove e molto si distrugge.
Un Paese dove al ministero dello Sviluppo economico sono aperte ufficialmente circa 150 crisi aziendali, molte delle quali si trascinano da anni come l’Ilva di Taranto e non diventano un problema di ordine pubblico solo perché si tampona la situazione con quintali di cassa integrazione. E se adesso sono in ballo, per il 2020, circa 300.000 posti di lavoro, non si può dimenticare che a questi numeri vanno aggiunti quelli di scandali come Air Italy, che non ha mai chiesto lo stato di crisi, ma ha direttamente licenziato a sorpresa, via email, 1.450 dipendenti in un colpo solo. E poi ci sono le banche, dove gli esuberi sono gestiti su base volontaria e in guanti bianchi, e però ce ne sono già 30.000 dichiarati ufficialmente da inizio 2019.
Se si incrociano le dita, magari girandosi dall’altra parte rispetto a quello che potrebbe accadere nei prossimi mesi a tutto il settore auto (220 mila addetti) con la fusione Fca-Psa, sono a rischio almeno 350-380.000 posti di lavoro. Come se venissero cancellate Bari o Bologna, anziani e bambini compresi. E mentre, a giorni alterni, si riaccende il dibattito sulle pensioni da tagliare, le aziende che ormai smaltiscono lavoratori come fossero amianto fanno finta di non sapere che senza la discussa Quota 100, accusata di essere troppo generosa e di minare i conti dell’Inps, non si potrebbero scaricare migliaia e migliaia di dipendenti e sostituirli, quando va bene, con ragazzi pagati la metà.
Che l’Italia non sia la patria dei numeri non lo dicono solo gli ultimi test Invalsi, con un maturando su tre bocciato in matematica, ma anche le sterili polemiche politiche sui tassi di disoccupazione. Ogni mese, quando l’Istat fornisce gli ultimi dati sul mercato del lavoro, ogni partito li tira dalla propria parte come fossero di pasta sfoglia e li usa per incensare, o demolire, questa o quella riforma, dal Jobs Act al Decreto dignità. Solo per citare gli ultimi due casi, a dicembre 2019 gli occupati sono scesi di 75.000 unità, mentre il tasso di disoccupazione, ovvero il numero di persone che cercano un impiego e non lo trovano, è rimasto stabile al 9,8 per cento.
Quasi tutti i giornali hanno riassunto così: «Dicembre nero per l’occupazione». Un mese prima, invece, era tornato l’ottimismo e si parlava di «occupazione record»: solo per 41.000 posti di lavoro in più e una disoccupazione al 9,7%. La verità è che non ci si rassegna al fatto che le statistiche mensili sul lavoro andrebbero prese con le pinze e bisognerebbe aspettare almeno quelle annuali. «Tra l’altalena dei dati sul numero di occupati, la bassa qualità di molti posti di lavoro e le numerose discussioni sulle crisi aziendali, resta nel Paese un forte sentimento di precarietà» osserva l’economista di stanza all’Ocse Andrea Garnero su lavoce.info.
Per capire meglio che sta succedendo bisogna invece partire dal 2007, prima che si scatenasse la crisi dei mutui subprime importata dagli Stati Uniti. Chi da sinistra denunciava la «cinesizzazione» dell’Italia, ovvero maggiore produttività e minori diritti, per fortuna si è sbagliato. Sergio Marchionne, l’ex gran capo di Fiat Chrysler, nel 2011 veniva additato da sindacati ed economisti (Loretta Napoleoni e molti altri) come «il profeta della cinesizzazione dell’Italia», in combutta con il governo di Mario Monti.
Purtroppo il letargo a volte è peggiore di un attivismo disordinato e un po’ selvaggio. Il tasso di disoccupazione, nei 12 anni della crisi, è passato dal 6,1 al 9,8% e già questo fa capire che quando ci sono oltre due e milioni e mezzo di disoccupati (per non parlare dei tre milioni di «scoraggiati» che non cercano più lavoro) non sono i 40.000 lavoratori in più o in meno in un mese a dirci dove stiamo andando. Basta alzare lo sguardo e la rotta è chiarissima da anni. Nel 2019, le ore lavorate sono aumentate di un pallido 0,6% su base annua, ma restano nettamente sotto i livelli pre-crisi. Del resto, quando hai un Pil che è oscillato tra due decimali di crescita nel primo trimestre 2019 e tre decimali di flessione nell’ultimo trimestre, tenere in qualche modo i livelli occupazionali è già un miracolo.
Il dato che forse illumina meglio un cambiamento che ormai si può definire strutturale è quello del lavoro a tempo parziale, l’unico in continua crescita da oltre 12 anni. Se nel 2008 i lavoratori part-time erano 3,3 milioni su 23,1 milioni (14,3% del totale), nel 2018 sono diventati 4,3 milioni (18,5%) e nell’ultimo trimestre del 2019 l’Istat li ha collocati al 18,8%. Significa che ormai un lavoratore su cinque è a orario ridotto, con le immaginabili conseguenze sul reddito.
Ma il dato più allarmante è che il 64% di loro ha accettato la riduzione a denti stretti e il fenomeno ormai ha anche un nome, tra i tecnici, «part-time involontario». Cercano tutti di guadagnare un po’ di più, vengono respinti e ovviamente tutto questo va a vantaggio del lavoro nero, che su orari ridotti è anche un rischio relativo. Quanto al lavoratoro autonomo, fin dagli anni Settanta una valvola di sfogo per i dipendenti in eccesso (la Fiat ha aiutato migliaia di operai a mettersi in proprio nell’autotrasporto), a dicembre si è scesi a 5,2 milioni di autonomi. L’Istat ha registrato che si tratta del minimo storico dal 1977. Non a caso, non solo al Sud, un impiego in Regione resta il sogno segreto di milioni di italiani.
Se si tiene a mente che tra il 2007 e oggi sono saltati circa 900.000 posti di lavoro (sempre in base ai dati Istat), allora si capisce che gli oltre 300.000 ufficialmente a rischio per il solo 2020 segnano davvero un’accelerazione preoccupante. Si lavora meno, si lavora in meno e i salari sono fermi al palo da anni. Al ministero dello Sviluppo economico, retto dal grillino Stefano Patuanelli, sono ufficialmente aperti 149 tavoli per aziende in crisi e i lavoratori coinvolti sono appunto oltre 300.000. Alcune vertenze vanno avanti da tre o quattro anni, come quelle dell’Ilva di Taranto, e già questo fa capire come qui il concetto di crisi abbia a che fare più con la lungodegenza che con il Pronto soccorso. Se si mettono in fila le dichiarazioni dei leader sindacali di fronte alle varie crisi aziendali, ci si accorge che ripetono sconsolati sempre lo stesso concetto.
«Manca un’idea di Paese, da trent’anni non abbiamo una politica industriale» lamenta Francesca Re David, segretario della Fiom Cgil, di fronte ai licenziamenti di Air Italy. Vero. Non sappiamo che cosa produrre, dove e come produrlo, su che cosa focalizzarci. Ma passiamo da «un’emergenza lavoro» all’altra, chiedendo sempre l’intervento dello Stato. Alitalia non sa come restituire 1,2 miliardi di prestito pubblico (degli interessi manco si parla) e qui sono a rischio 11.000 lavoratori, che diventano quasi il doppio con l’indotto. Nel frattempo esplode il caso Air Italy, con 1.450 dipendenti licenziati, la Sardegna virtualmente isolata, la cassa integrazione impossibile perché l’azienda di proprietà dell’Aga Khan e dei fondi del Qatar ha veduto bene di negare sempre lo stato di crisi e scegliere la strada della liquidazione volontaria in bonis, che consente maggiore discrezionalità. Una strada meno costosa per l’azienda e più al riparo da «ingerenze» politiche, come sanno i bravi fallimentaristi.
Del resto, sull’Ilva, i franco-indiani di ArcelorMittal hanno messo nero su bianco con il Mise un piano da 4.700 esuberi, ma intanto l’indotto e l’economia di Taranto sono in ginocchio da oltre cinque anni. A Napoli, la Whirlpool ha deciso di far fuori 400 persone che costruivano lavatrici. A Bari, la Bosch produce pompe per i motori diesel e ha utilizzato ogni possibile forma di cassa integrazione, ma alla fine sconta il calo del mercato auto e vuole mandare a casa 624 addetti su 1.805. Vanno male le cose anche alla tedesca Mahle, sempre componenti auto, che in Piemonte sta licenziando 453 operai. Negli anni della deindustrializzazione forzata ci si era illusi, specie nel centrosinistra, che la risposta corretta alle fabbriche che chiudevano fosse l’apertura a getto continuo di centri commerciali e ipermercati. A parte la valutazione macroeconomica davvero disarmante, come se una nazione di 60 milioni di persone potesse campare facendo la spesa, le crisi di Mercatone Uno (1.730 lavoratori) e di Auchan, Simply e Sma, che i francesi hanno mollato a Conad con corredo di 3.105 esuberi, testimoniano che la sbornia da punto vendita è finita.
La settimana prima di Natale, con la nascita di Fca-Psa, il presidente John Elkann è stato chiaro: i piani «non prevedono alcuna chiusura di stabilimenti». E però se la holding di famiglia Exor incasserà 5 miliardi e mezzo di euro come dividendo straordinario della fusione «alla pari» con Peugeot, qualcosa vorrà dire. La governance prevede che gran parte dei poteri andranno a Carlos Tavares, capo azienda del colosso francese con una solida fama di tagliatore di teste. E se il governo di Parigi avrà voce in capitolo sulle «sinergie», visto che possederà il 6% (oggi è al 12), quello italiano non ha un’azione, anche se è lecito immaginare che su Torino tacerebbe comunque. Come ha sempre fatto, salvo concedere cassa integrazione come un bancomat. E mentre gli 85 mila dipendenti italiani della ex Fiat incrociano le dita, a Termini Imerese si trascina ancora la crisi della Blutec, con 970 lavoratori in cassa. Anche qui era tutto della Fiat, che però ha venduto la baracca agli imprenditori piemontesi Ginatta, ora sotto inchiesta, accusati di aver solo drenato fondi pubblici.
BANCHE «GENTILI»
E mentre nel 2019, a Piazza Affari, sono esplosi i dividendi con oltre 23 miliardi di euro distribuiti (+8% sul 2018) e tutte le principali banche presentano utili sostanziosi, stanno sparendo i bancari. L’ultima grande operazione annunciata, ovvero Intesa Sanpaolo che ingloba anche Ubi Banca, nasce con 5.000 lavoratori che verranno accompagnati alla porta, su base volontaria. Al loro posto, a fine processo, entreranno 2.500 under 35. Si vanno ad aggiungere ai 6.000 esuberi annunciati da Jean Pierre Mustier, a.d. di Unicredit, che alla mitica mascotte dell’alce ha sostituito direttamente la falce. Secondo i calcoli della Fabi, la contabilità degli esuberi bancari da inizio 2018 a oggi arriva a 30.000 unità. E nel decennio precedente, la Bce ha calcolato che sono scomparsi 64.000 posti di lavoro negli istituti italiani, dove prima della crisi lavoravano 340.000 persone. I banchieri di casa nostra insieme alla Confindustria hanno sempre criticato la famosa Quota 100 promessa da Lega e Cinque stelle. A torto o a ragione, l’hanno usata e la usano alla grande per sfoltire gli organici a spese dei contribuenti.
Ora, Quota 100 scade nel 2022 e le trattative tra governo e parti sociali sono già iniziate, ma resta il nodo della bassa contribuzione, con i lavoratori nuovi che non solo sono meno dei pensionandi, ma versano assai meno all’Inps. Se si guarda al resto d’Europa, si vede che i grandi Paesi come la Francia hanno puntato molto sulla riduzione del cuneo fiscale e della tassazione del lavoro, cosa che ha cominciato a fare anche l’Italia dopo che gli industriali lo chiedevano da decenni. A regime, nel 2021, si tratta di 7,1 miliardi l’anno, a beneficio di 15 milioni di lavoratori. Peccato che in media, nell’Europa a cui tanto ci uniformiamo, si investa almeno il doppio delle risorse. Sul lavoro, siamo di fronte a una slavina senza fine, ma pensiamo di cavarcela con qualche pala in più.
