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Inquini il pianeta? L’accusa sarà di Ecocidio

Inquini il pianeta? L’accusa sarà di Ecocidio

Dovremo prendere confidenza con questo termine che si riferisce ai disastri ambientali provocati dalle attività umane di sfruttamento del pianeta. E così, come per i crimini di guerra, anche per questi atti illegali su scala mondiale si dovrà rispondere davanti a una corte penale.


Giudicato da un tribunale penale internazionale, al pari di un criminale di guerra. È quello che in futuro potrebbe rischiare il manager di una multinazionale colpevole di aver provocato danni gravi all’ambiente. O il capo di uno Stato che non ha fermato il disboscamento selvaggio delle sue foreste (si veda l’accusa appena rivolta dall’Associazione dei popoli indigeni del Brasile al presidente Jair Bolsonaro). Sarebbero accusati di «ecocidio», un termine che probabilmente non suona familiare ma che nei prossimi anni potrebbe diventare comune quanto il genocidio.

Infatti sarà proprio la Corte penale internazionale dell’Aia, competente a giudicare i crimini di genocidio, di conflitti e altri delitti contro l’umanità, ad accogliere nel suo statuto anche l’ecocidio, sempre se il complesso procedimento per l’introduzione del nuovo grave reato internazionale raggiungerà il suo traguardo. Ma che cos’è l’ecocidio? «Non c’è una unanimità di vedute» spiega Giuseppe Fornari, titolare dell’omonimo studio legale di Milano che ha maturato una specializzazione nei reati ambientali. «Un buon punto di partenza è la definizione fornita dall’articolo 2 della Convention Ecocide, proposta frutto del lavoro di ricerca di un gruppo di giuristi di rilevanza internazionale. In quest’articolo l’ecocidio viene definito così: “Insieme di atti internazionali commessi nell’ambito di una azione generale o sistematica che può attentare alla sicurezza del pianeta”. Di recente, la fondazione Stop Ecocide ha fornito invece questa definizione: “atti illegali o sconsiderati compiuti con la consapevolezza di una significativa probabilità che tali atti causino danni all’ambiente gravi e diffusi o di lungo termine”».

I casi di ecocidio possono essere vari: una devastante perdita di petrolio come quella provocata nel 2010 dalla piattaforma Deepwater Horizon, che ha formato nel Golfo del Messico un’enorme chiazza di 149 mila chilometri quadrati. L’inquinamento di greggio del Delta del Niger, Africa occidentale. L’esplosione nucleare nella centrale giapponese di Fukushima. Pratiche come la pesca a strascico in acque profonde, che distruggono interi ecosistemi oceanici. La pesca eccessiva con associata perdita di specie multiple. Il disboscamento dell’Amazzonia, appunto. E poi la criminalità ambientale vera (come il traffico abusivo di rifiuti), che rappresenta la quarta attività illegale più redditizia al mondo.

L’idea di fondo che spinge una serie di organizzazioni a promuovere il concetto di ecocidio è che la Terra è in pericolo e le azioni compiute in una certa area del Pianeta hanno ormai un impatto globale che riguarda tutti. Di conseguenza ci deve essere un tribunale internazionale che giudichi questi crimini e rappresenti un forte disincentivo affinché non vengano compiuti. «A differenza di fare causa e multare le corporazioni – che semplicemente mettono a bilancio questa possibilità – rendere l’ecocidio un crimine crea un reato passibile di arresto» sottolinea la fondazione Stop Ecocide, fondata nel 2017 per promuovere l’adozione diquesto reato globale tra le competenze della Corte penale internazionale. «Il successo aziendale dipende dalla fiducia del pubblico e degli investitori. Nessun amministratore delegato o finanziere vuole essere visto allo stesso modo di un criminale di guerra. Una legge di ecocidio all’orizzonte segnerà quindi la fine dell’immunità aziendale e comincerà a reindirizzare gli affari e la finanza lontano da pratiche gravemente dannose».

Il termine «ecocidio» è stato coniata nel 1970 dal botanico americano Arthur W. Galston, che studiò gli effetti dei defolianti, chiamati in codice «Agent Orange», lanciati dagli aerei americani durante la guerra in Vietnam. Due anni dopo, il primo ministro svedese Olof Palme fece riferimento alla guerra del Vietnam come «ecocidio» nel suo discorso di apertura alla Conferenza delle Nazioni Unite di Stoccolma sull’ambiente umano. Ma è solo dopo una ventina d’anni che il termine esce dall’ambito bellico per inserirsi stabilmente in quello ecologico.

L’opinione pubblica è sempre più preoccupata per i danni che l’umanità sta arrecando al pianeta e la pressione affinché i colpevoli dei disastri ambientali vengano puniti è in forte crescita. Nel 1990 il Vietnam è il primo Stato a codificare l’ecocidio nel suo diritto interno, seguito nel 1996 dalla Federazione Russa e poi da una serie di Paesi dell’ex blocco sovietico.

Dal 2015 in Italia esiste il reato di «disastro ambientale», commesso da chi causa, per esempio, «l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema». Attualmente nel mondo sono una decina gli Stati che hanno inserito un reato simile all’ecocidio nel proprio ordinamento: da ultimo la Francia, che ha messo a punto una proposta volta a punire in modo più severo gli illeciti che possono diventare duraturi, minacciando così l’intero ecosistema. Mentre il confronto sull’ecocidio proseguiva, nel 1998 a Roma 120 Stati adottarono uno statuto che istituiva la Corte penale internazionale. La sua competenza riguarda quattro tipologie di crimini: genocidio, crimini contro l’umanità, di guerra e di aggressione (cioè una nazione che usa la forza contro un’altra). Vi aderiscono 123 Paesi. La Corte può giudicare individui che, come organi statali o come semplici privati, abbiano commesso gravi crimini di rilevanza internazionale. Affinché il crimine di ecocidio rientri nelle competenze della Corte penale dell’Aia, è necessario che i due terzi delle nazioni parte, cioè 82, siano a favore dell’emendamento. Probabilmente ci vorrà una conferenza di revisione dello Statuto, dove il testo finale verrà discusso e concordato tra gli Stati parte. Tra i primi a chiedere di includere il crimine di ecocidio allo Statuto di Roma sono stati, nel 2019, Vanuatu e Maldive, arcipelaghi messi a rischio dall’aumento di livello degli oceani. Nel 2020 si è aggiunto il Belgio. E lo stesso anno la Commissione per lo sviluppo del Parlamento europeo rilevava che «mentre il diritto internazionale ambientale si è evoluto attraverso l’adozione di trattati e convenzioni, il diritto penale continua a rivelarsi insufficiente per prevenire danni ecologici significativi». Invitava perciò l’Unione europea a promuovere «un ampliamento della sfera di competenza della Corte penale internazionale ai fini del riconoscimento dei reati che costituiscono ecocidio nel quadro dello Statuto di Roma». Il 20 maggio 2021, il Parlamento europeo ha approvato il testo della Risoluzione sulla responsabilità delle imprese per i danni ambientali, con cui ha rilevato una scarsa applicazione delle fattispecie penali a tutela dell’ambiente e una preoccupante disomogeneità delle normative nazionali, tali da determinare gravi distorsioni che ne inficiano l’applicazione; ma, al contempo, ha evidenziato il «crescente impegno da parte degli Stati membri ad adoperarsi per il riconoscimento dell’ecocidio a livello nazionale e internazionale».

La pressione insomma sta aumentando. Ma che cosa accadrà se il crimine di ecocidio entrerà nelle competenze della Corte penale internazionale e negli ordinamenti nazionali? Vedremo il presidente del Brasile Bolsonaro sul banco degli imputati per aver favorito un ulteriore sfruttamento delle «risorse vegetali» del suo Paese? O magari l’amministratore delegato dell’ex-Ilva per l’inquinamento dell’acciaieria a Taranto? «In teoria è possibile» risponde l’avvocato Fornari, «ma in pratica penso che non accadrà. Per le aziende l’introduzione del nuovo crimine rappresenterebbe un incentivo a riformare la propria normativa interna per adeguarsi al nuovo accordo internazionale e prevenire così la commissione di illeciti rientranti nella definizione di ecocidio.

In sostanza, le società e gli imprenditori faranno molta più attenzione nel costruire dei modelli organizzativi virtuosi che prevengano la commissione di gravi reati ambientali». Traduzione: trasformare un rischio ambientale in opportunità industriale.

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