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Fine corsa, in ospedale

Fine corsa, in ospedale

Viaggio in un Pronto soccorso d’eccellenza, in Sicilia, dove i decessi sono triplicati rispetto al 2018. Il Covid però non c’entra, si muore per carenza di servizi, di personale, di posti letto a fronte di tanti malati gravi. Un caso isolato? No, la normalità di troppi reparti d’emergenza italiani.


Alle 11 del mattino di un lunedì di fine agosto, il Pronto soccorso del Policlinico di Catania, uno dei più importanti della Sicilia, scoppia di pazienti. Cinquanta ricoverati, alcuni in reparto da più di cinque giorni: due codici rossi, 23 gialli, 25 verdi e in sala d’attesa una lunga fila di persone che devono ancora fare il triage e si lamentano, chiamano, imprecano. I reparti di emergenza e urgenza di tutta Italia, nel terzo anno della pandemia, sono i malati terminali del Servizio sanitario nazionale; tra personale insufficiente, reparti di degenza smobilitati per far posto ai letti Covid, aggressioni, quarantene e regole pandemiche ferme al 2020 che ingessano la normale attività di cura, il sistema di emergenza è a un passo dal tracollo, e le conseguenze si traducono in due parole: più morti.

Qui al Policlinico etneo, fiore all’occhiello della sanità siciliana con 51 mila accessi annui, nel Pronto soccorso inaugurato appena quattro anni fa e dotato di attrezzature all’avanguardia e di un’equipe d’eccellenza, il primario Giuseppe Carpinteri snocciola i dati di mortalità del suo reparto. Triplicati: dai 60 decessi annuali del 2018 (quando gli accessi erano superiori di 10 mila unità rispetto a ora) ai 180 del 2021, uno ogni due giorni. Colpa della pandemia? No, di questi 180 solo il 5 per cento, ossia 10, è imputabile al virus. «I numeri sono più o meno uguali ovunque» spiega Carpinteri. «Tra primari ci confrontiamo e cambia poco nei vari ospedali e nelle regioni: alcuni nosocomi si stanno attrezzando con stanze dedicate al “fine vita”, inimmaginabile fino a pochi anni fa. Noi del Policlinico questi numeri li abbiamo messi nero su bianco, grazie a una tesi di laurea, e diffusi in conferenza stampa. Siamo convinti del fatto che se c’è un problema, ed è indubbio che ci sia, si deve sapere e trovare una soluzione».

Un problema in cui però il Covid c’entra poco, come mostrano i numeri, e nemmeno l’organizzazione del singolo Pronto soccorso – la maggior parte dei pazienti non muore nell’immediatezza dell’arrivo, ma dopo diversi giorni trascorsi in Ps – ma un sistema in difficoltà in cui l’erogazione dei servizi va giocoforza al ribasso. Falcidiando i già pochi posti letto (in Italia ne sono previsti solo 3,6 per mille abitanti, media decisamente più bassa degli altri Paesi europei), convertendo i reparti di cura ordinaria in reparti Covid – senza aumentare il numero di medici e infermieri. La conseguenza è il fenomeno del «boarding»: i malati troppo gravi per essere dimessi ma privi di un posto letto nei reparti destinati, restano in Pronto soccorso per giorni.

«Diversi studi internazionali» afferma Fabio De Iaco, presidente nazionale di Simeu (Società italiana medicina di emergenza e urgenza) e direttore del Pronto soccorso dell’ospedale torinese Maria Vittoria «ci dicono che l’attesa eccessiva in Ps è direttamente correlata all’incremento di mortalità e morbilità, a un aumento di incidenti – cadute dalla barelle, per esempio, e di errori del personale dovuti al burn-out. E non vedo alcuna volontà politica nell’affrontare l’emergenza». Esiste poi un problema di dignità del paziente, di assistenza, pasti, igiene: in Ps uomini e donne sono nelle stesse stanze se non ammassati nei corridoi, si mangia in barella poggiati sui gomiti, spesso c’è un solo bagno, e garantire la privacy a tanti pazienti da cambiare più volte al giorno è impossibile. «Ma spesso non si può fare altrimenti» riconosce Beniamino Susi, vice presidente Simeu. «Sono costretto a prendere atto dell’impossibilità di rispettare i nostri pazienti. Viviamo il dramma di essere gli esecutori di un fallimento che non avremmo mai voluto».

In questo scenario, il mantenimento delle regole Covid ferme al 2020 non aiuta un’organizzazione del lavoro efficiente: «Non abbiamo disposizioni centrali o ministeriali» prosegue De Iaco «che ci permettano di cambiare la gestione del paziente affetti dal virus dal punto di vista dell’isolamento e della destinazione nei reparti. Siamo fermi a due anni e mezzo fa, in molti casi si procede a vista: alcune regioni hanno creato “bolle” con ricoverati per Covid dentro i vari reparti, altre continuano a tenerli parcheggiati in Pronto soccorso finché non si liberano posti in spazi dedicati ai positivi».

Si chiede agli ospedali di mantenere un doppio binario di assistenza e cura, ma con le stesse risorse di medici e infermieri dei tempi pre-pandemia. «I cittadini devono conoscere la reale situazione delle aree di emergenza» afferma Massimo Geraci, primario del PS del Civico di Palermo (80 mila accessi l’anno). «I Pronto Soccorso sono oggi luoghi meno sicuri rispetto al passato, non ci si può stupire se la mancanza di empatia da parte degli operatori, stanchi, frustrati e in attesa di “fuggire” verso ambiti ospedalieri più tranquilli, sia sempre più diffusa. Parlare di umanizzazione delle cure in questo contesto è una utopia, se non ipocrisia. Sentiamo il dovere di urlare il nostro disagio e quello dei nostri utenti, senza timore di essere considerati allarmisti, perché il silenzio è solo complicità».

Intanto, da inizio anno, si sono dimessi per il «burn out» 100 medici al mese. La situazione è tale che in Sicilia e in Calabria si reclutano dottori stranieri – argentini e cubani – per coprire i turni, mentre fioccano in tutta Italia le storie di cooperative che reclutano a caro prezzo medici di ogni specializzazione: «Situazione rischiosissima. Così facendo si consegna la medicina di emergenza a “gettonisti” spesso difficilmente inquadrabili anche come competenze, che non rispondono al primario ma al proprio datore di lavoro» commenta Carpentieri, mentre un elicottero atterra sul tetto del suo reparto e di fianco le ruspe scavano per creare nuovi spazi di emergenza in vista dell’ondata autunnale di Covid. «Quanto ancora potremo resistere?» si chiede il primario. «Temo non molto».Ma un codice rosso è in arrivo, non c’è tempo per continuare: il Pronto soccorso resta pur sempre un luogo dove salvare vite. Anche quando è sempre più difficile farlo.

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