Nell’appartamento dello storico palazzo di fronte al Quirinale appartenuto alla sua famiglia, dove abitava anche Gianni Agnelli durante le trasferte romane, il professor Andrea Carandini ricostruisce, basandosi sul suo Atlante di Roma Antica, il progetto di piazza Augusto Imperatore.
È qui che il Comune guidato da Roberto Gualtieri (Pd) ha abbattuto quasi tutti i 68 cipressi monumentali che incorniciavano il Mausoleo di Augusto. Il progetto di un bosco religioso intorno al complesso funerario era stato concepito dal geografo Strabone più di 2.000 anni fa.
Poi è stato ripreso dall’architetto del regime fascista Antonio Muñoz, che nel 1937 fece ripiantare i cipressi pensando ingenuamente di affidare alla storia quella piccola oasi di verde e di spiritualità nel cuore della capitale: i cupressus sempervirens sono ultracentenari, vivono fino a due millenni.
Muñoz non aveva fatto i conti con lo sbarco di Gualtieri e dei suoi architetti a Roma i quali, in nome del Pnrr, hanno fatto abbattere moltissimi alberi, dal valore non soltanto ecosistemico (per sostituire un albero di 80 anni di vita, alto 30 metri, bisognerebbe mettere a dimora più di 3 mila piante, dice il premio Nobel William R. Moomaw) ma anche paesaggistico e storico, nonché patrimoniale: ognuno dei fusti abbattuti può valere decine di migliaia di euro. La promessa era di ripiantarli tutti, ma non è andata così: del “milione di alberi” vagheggiati dal sindaco ne sono stati piantati finora, per sua stessa ammissione, 37 mila.
«È stata fatta una manomissione spaventosa, sia del monumento che del verde, qui non c’è niente di ragionato», spiega Carandini a Panorama, «Mussolini aveva dato un certo assetto, ormai storicizzato, al monumento, quel po’ di verde gli dava una certa amenità: lo hanno completamente denudato».
Qualcuno ha amaramente ironizzato che i cipressi siano finiti sotto la falce (e il martello) di Gualtieri perché erano “alberi fascisti”. Il che è inverosimile, ma neanche tanto: l’abbattimento di quei monumenti botanici è soltanto la punta dell’iceberg di un piano sistematico di stravolgimento architettonico degli angoli più rappresentativi della storia di Roma, della quale il verde è da sempre parte integrante, come spiega Carandini.
Il cavallo di Troia che sta consentendo alla giunta di cambiare i connotati alla Capitale sono i soldi destinati dal Pnrr a sostituire le specie arboree malate, a fronte di un bilancio degli abbattimenti sepolto sotto la più totale opacità: ogni mattina i cittadini romani trovano, al risveglio, cataste di legna a perdita d’occhio ma quantificare lo scempio è complicato e i dati forniti dal Comune sono incompleti e contraddittori.
L’assessore all’Ambiente Sabrina Alfonsi, infatti, ha pubblicamente parlato di 13.281 abbattimenti tra novembre 2021 e febbraio 2025. I dati ufficiali Acos, invece, ottenuti dopo una richiesta di accesso agli atti di Fabrizio Santori, capogruppo della Lega in assemblea capitolina, che ha presentato diversi esposti, avevano riferito, soltanto da settembre 2021 a settembre 2023, ben 17.825 abbattimenti e 2.403 piantumazioni. Le stime di Jacopa Stinchelli, presidente dell’associazione C.u.r.a.a, parlano di decine di migliaia di alberi soppressi. Tutti irreversibilmente malati? Le diagnosi sono sempre le stesse: “morti in piedi” non curabili, per la gioia delle ditte appaltatrici, alle quali una cura endoterapica di un albero frutta poche decine di euro contro le centinaia o migliaia di euro che rende, invece, tirare giù un fusto di 30 metri.
A Palazzo Senatorio parlano anche di «fine ciclo vita», concetto abbastanza fuorviante per gli alberi, secondo l’agronomo Daniele Zanzi, senza contare che le leggi italiane ammettono gli abbattimenti soltanto come ultima ratio e le perizie sono eseguite dalle ditte in evidente conflitto d’interessi (il controllore e il controllato sono la stessa entità). Il punto definitivo lo ha riassunto entusiasticamente Gualtieri pochi giorni fa, presentando la piattaforma Green Space che ci consentirà di avere «un gemello digitale per ogni albero».
Gli alberi veri spariscono, insomma, in compenso avremo l’album con le figurine di quelli virtuali. E che l’ecocidio sia matematicamente applicato agli scenari che ricordano una tradizione storica antica, lo dicono i fatti. Dopo due anni di prove generali, nel 2024 Gualtieri e il suo fedele assessore all’ambiente Sabrina Alfonsi sferrano il primo colpo, mortale, al più antico giardino pubblico di Roma, il Pincio. Le ditte entrano in azione nell’area tutelata a fine marzo, procedendo con abbattimenti e capitozzature (potature estreme, che riducono gli alberi a monconi) effettuate in palese violazione del Regolamento del verde, che le vieta nel periodo di nidificazione. In poche settimane, nel piccolo gioiello verde incastonato tra piazza del Popolo e Villa Borghese, secondo il progetto ottocentesco del Valadier che aveva ideato anche la coulisse botanica, l’area perde circa 50 alberi, tra cui 15 pinus pinea, tutti “malati”.
I pini di Roma celebrati da Respighi sono il simbolo della città ma anche l’ossessione di Gualtieri: perfino il New York Times dedica un reportage alla (mala)gestione dei «Rome’s iconic umbrella pines», cioè degli iconici pini marittimi, scrive il quotidiano americano, abbattuti anche davanti al Campidoglio. Pini che scompaiono anche dalla stazione Termini, dai Fori Imperiali e dalle Terme di Caracalla, dal Circo Massimo, da Trastevere e dal Lungotevere, ma anche dal Colosseo e da largo Corrado Ricci.
Le motoseghe non hanno risparmiato neppure le altre ville storiche: a Villa Glori i cittadini stanno curando a spese proprie ciò che resta della pineta. Nel mirino della giunta capitolina sono finiti anche i 50 oleandri di viale Bruno Buozzi ai Parioli, la bellissima olmata di via Ozanam e i 70 olmi di viale dei Quattro Venti a Monteverde, i ciliegi di via Panama, donati dall’imperatore giapponese Hirohito, il gingko biloba di Villa Borghese, maestoso cedro del Libano della villa amputato del braccio destro, per non parlare del leccio abbattuto che faceva parte della sistemazione seicentesca del parco.
Quello della manutenzione è il capitolo più dolente: «La percentuale dei fallimenti si aggira intorno a un fisiologico 8-12 per cento», si difende Gualtieri, ma secondo Zanzi, nel 30 per cento dei casi le nuove piante, non essendo manutenute, muoiono entro due anni. Per gli alberi di Roma si batte Jacopa Stinchelli: la chiamano “la voce degli alberi” e collabora con l’associazione Amici di Villa Borghese, fondata da Suso Cecchi D’Amico e oggi presieduta da Alix van Buren.
Con Stinchelli si è mosso anche l’imprenditore edile Lorenzo Di Paola: insieme hanno portato in laboratori italiani ed esteri le campionature dei cipressi abbattuti per fare l’analisi fitopatologica, con esito scontato: erano sani.
Sul disastro capitolino è intervenuto anche il vicepresidente della Camera (nonché architetto) Fabio Rampelli (Fdi), che ha firmato una interpellanza ricevendo dal sottosegretario alla Cultura Giancarlo Mazzi una risposta sconcertante: la rimozione dei cipressi era stata autorizzata anche dalla Soprintendenza. «È agghiacciante: da un lato c’è l’ecologia della responsabilità, dall’altro l’ecologia positivista, per cui un albero vale un altro». Dopo anni di proteste e sit-in, a testimonianza della partecipazione concreta dei cittadini per la natura e l’ambiente, Gualtieri ha risposto parlando di “fake news”.
Ma i conti non tornano: «Come ha detto Zanzi», chiosa Stinchelli, «Roma sta sdoganando un modello nefasto per la “cura del verde” in tutti i Comuni d’Italia, che si sentono autorizzati a imitarla».
