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Auto Demolizione

Auto Demolizione

Così, in epoca Elkann-Tavares, La storica industria italiana viene dismessa. Tagliando gli investimenti, ridimensionando gli impianti, producendo i nuovi modelli all’estero. Però, l’ex Fiat non perde il vizio, E pretende incentivi.


C’è stata un’estenuante esegesi (che avrebbe tediato il sempre annoiato Gianni Agnelli) su una frase pronunciata dall’Avvocato. In Italia può capitare che si perda oltre il 13 per cento in un anno nella produzione di auto (2023 su 2022), che su 1,6 milioni di vetture immatricolate (sempre nel 2023) solo 500 mila siano quelle uscite dai nostri stabilimenti, eppure si continui a disquisire sul sesso degli angeli. Cosa disse appunto il «monarca industriale»: «Ciò che è bene per la Fiat è bene per l’Italia» oppure «Ciò che è male per Torino è male per la Fiat e per l’Italia?».

In ogni caso viene da chiedersi se è un male per Torino e per l’Italia che gli stabilimenti di Mirafiori abbiano appena messo in cassa integrazione altri 2.260 addetti mentre si costruisce una nuova fabbrica in Ungheria; viene da chiedersi se sia un male per l’Italia che si venda lo stabilimento Maserati, uno dei punti forti della strategia di Sergio Marchionne, a Grugliasco (To). Viene da domandarsi dopo pochi giorni dalla presentazione della nuova SF-24 perché nessuno abbia fatto notare che la sfida tra Ferrari e Red Bull in formula uno è in realtà un derby olandese perché anche il Cavallino rampante, forse il più celebrato esempio d’italianità nel mondo, ha sede legale ad Amsterdam come il bolide dei bibitari. In Olanda, al riparo dall’occhio indiscreto di Ernesto Maria Ruffini – il direttore dell’Agenzia delle entrate che non perde occasione per ricordare quanto pesino 1.200 miliardi di credito fiscale non riscosso, ma che sull’eredità Agnelli è parso restare un giro indietro – in Olanda, si diceva, si trova il cuore strategico di Stellantis, con gli Elkann che hanno spostato lì anche la sede della Juventus e dei giornali del gruppo Gedi: quelli che fanno la morale agli evasori. Oddio, metà capitalismo italiano, comprese alcune partecipate di Stato, preferisce il diritto societario dei tulipani.

Nel caso degli Elkann fu Agnelli viene qualche dubbio in più, visto che il capo della dinastia John Elkann (è lui il commissario liquidatore della storia della Fiat dissolta dentro Stellantis, dove d’italiano è rimasto pochissimo) è indagato per evasione fiscale. La faccenda è complicata, ma se ciò che è male per la Fiat è male per l’Italia non c’è da stare allegri.

I nuovi Agnelli coltivano una fortissima esterofilia: quattro trust in Svizzera, 16 società offshore. In questo vortice c’è di tutto tranne le fabbriche. Sembra che John Elkann abbia scelto come professione l’autodemolizione. Strano per il discendente della famiglia che con le auto è riuscita a farsi dare dallo Stato italiano una montagna di miliardi. Nel 2013, a dieci anni dalla morte di Gianni Agnelli, Federcontribuenti l’aveva stimata in 220 miliardi di euro. A questi vanno aggiunti 3,9 miliardi di incentivi che dal Covid in avanti sono stati dati come bonus sulle vendite, 7,5 miliardi (la Fiat ne ha spesi 6,2: stima della Cgia di Mestre) per le ristrutturazioni di Melfi, Pratola Serra, Iveco Foggia.

Il disinvestimento industriale della famiglia si è comunque verificato in più tappe. Hanno venduto Fiat Ferroviaria ai francesi della Alstom, Fiat Avio a Carlyle, la Piaggio a Colaninno, la Magneti Marelli alla giapponese Kalsonik (e si sa com’è finita). Ma l’anno decisivo è il 2016. Gli Agnelli escono da Mediobanca, lasciano il Corriere della Sera, trasferiscono Exor in Olanda e mettono in vendita l’attico romano di Palazzo Mengarini Albertini Carandini con affaccio diretto sul Quirinale, da cui l’Avvocato faceva il controcanto al potere. Fine di un’epoca.

Nel dicembre scorso, per la prima volta dal 1928, la Fiat ha perso il primato delle immatricolazioni in Italia: 10.523 torinesi contro 10.752 Volkswagen. Il declino dura da trent’anni: nel 1989 si assemblavano oltre due milioni di vetture (1,4 milioni erano Fiat), nel 2002 erano calate a un milione, lo scorso anno non si sono superate le 600 mila unità. La Germania, che è il primo mercato della nostra componentistica, ha sfornato 3,3 milioni di vetture. La Spagna, che ha fatto un’offerta irrinunciabile a Stellantis (Carlos Tavares, il gran capo, è spagnolo) per andare a produrre lì i nuovi modelli, ha messo insieme 1,7 milioni di pezzi. E c’è anche la Francia, che ormai comanda in casa ex Fiat (i Peugeot sono saliti al 12 per cento e lo Stato al 10 per cento dei diritti di voto e vuole la fusione con Renault, dove Parigi detiene il 15 per cento del capitale in quota paritaria con Nissan) ha costruito 950 mila auto. Questo significa che, Ferrari a parte, gli stabilimenti italiani non sono più strategici. Lo ha fatto capire benissimo Tavares nella dura polemica che ha ingaggiato con il presidente del Consiglio Giorgia Meloni. In sostanza il manager ha detto: o ci pagate per produrre in Italia o ce ne andiamo. Il mondo dell’auto vale circa il 10,9 per cento del Pil. Il 5,2 per cento viene dalla produzione diretta con 5.135 imprese – c’è tutta la componentistica che non lavora solo per Stellantis ed è concentrata in Lombardia e Piemonte fatturando 45 miliardi – con 268 mila addetti, il resto va dai gommisti alle officine, dai distributori ai concessionari: tutti insieme sono mezzo milione di occupati per circa 150 mila imprese.

Per Federmeccanica ci sono 73 mila posti di lavoro a rischio. Perciò Tavares – senza che il suo datore di lavoro Elkann abbia emesso un fiato – fa la voce grossa. Giorgia Meloni risponde: «Bizzarre le espressioni di Tavares. Gli incentivi ci sono per quasi un miliardo, ma non per una sola azienda. Se si ritiene che produrre in altre nazioni dove ci sono costi inferiori sia meglio, non mi si dica che l’auto prodotta è italiana e non si venda come italiana. Siamo molto attenti al campo dell’automotive, ne abbiamo parlato anche nell’incontro con alcune aziende giapponesi, ma il rapporto deve essere equilibrato».

Per contro il ministro Adolfo Urso – dicastero Made in Italy e industria – che deve fare i conti con le crisi aziendali ha detto: «Se l’auto non vende è colpa di Tavares, ma il governo è pronto a valutare un’eventuale partecipazione». Servirebbero almeno quattro miliardi per contare qualcosa. Niccolò Machiavelli deve sentirsi orgoglioso, lui che disse «Tutti li tempi tornano e gli homini sono sempre uguali». Perché l’inizio del declino dell’auto ha una data certa: è il 1986 quando Romano Prodi, presidente a quel tempo dell’ente pubblico Iri, Istituto per la ricostruzione industriale – decise di vendere l’Alfa Romeo alla Fiat chiudendo la porta in faccia alla Ford. In quel preciso istante l’Italia si consegnò nelle mani di un solo costruttore di automobili.

E ci sarebbe da sorridere pensando che gli stabilimenti di Pomigliano d’Arco dell’Alfa Sud sono intitolati a Giambattista Vico! Quello stabilimento oggi è una fabbrica modello. Sergio Marchionne, che al contrario di Tavares credeva nella leadership italiana (la fusione con Chrysler aveva questo scopo, la nuova linfa per Maserati serviva a presidiare il mercato di fascia alta, i nuovi modelli Lancia avevano allargato la gamma e il patron della Formula uno Bernie Ecclestone, pochi mesi fa, ha detto: se ci fosse ancora Sergio la Ferrari avrebbe vinto altri Mondiali), lo aveva rilanciato e per tre volte ha vinto l’oscar delle fabbriche. Oggi lì si producono la Tonale e la Panda, ma le catene funzionano a singhiozzo. Mancano i meccanici, mancano i pezzi e al «Vico» sono stati trasferiti un migliaio di dipendenti degli stabilimenti di Melfi e di Cassino. Il futuro appare incerto: la Panda trasloca in Serbia e cambierà nome. Non è una novità nella storia della Fiat.

Nel 1980 la marcia dei 40 mila mise fine ai conflitti sindacali e dopo poco spuntò – il debutto fu nel 1983 – la Fiat Uno portata al successo dall’ingegner Vittorio Ghidella (se ne sono venduti oltre nove milioni di pezzi). Ma anche allora c’era un uomo di finanza che non voleva saperne di auto: Cesare Romiti. Oggi Tavares sostiene che gli stabilimenti italiani sono a rischio. A Melfi, tra auto elettrica che stenta e assemblaggi Fiat dirottati, rischiano in cinquemila; a Termini Imerese – sono in cassa integrazione da 12 anni – non c’è mai stata nessuna ripresa produttiva; a Mirafiori il 60 per cento dei lavoratori è a cinque anni dalla pensione e passando da un cassa integrazione all’altra sono convinti che lasceranno presto lo stabilimento. Stellantis ha lanciato un’offensiva di incentivi all’esodo per 15 mila impiegati e ai subfornitori ha mandato una lettera con accluso il volantino del Regno del Marocco per invitarli a spostare le produzioni a Rabat e dintorni. Siamo all’autodemolizione.

Per immaginare il futuro basta rileggere poche frasi dell’Avvocato. Nel ’76 annunciò l’accordo con la Libia, oggi c’è quello col Marocco. Nel 1980 Gianni Agnelli disse «Vogliamo lavorare» e fu la marcia dei 40 mila, ma sei anni più tardi pretese l’Alfa altrimenti chiudeva tutto. Nel ’99 disse di Roberto Colaninno: «Sono i capitani coraggiosi», ma gli vendette la Piaggio. La frase che più si attaglia al momento, però, è del 1990. Con gli azionisti affermò: «La festa è finita. In Europa troppi costruttori, entro la fine del secolo uno o due saranno pronti a scomparire». Lungimirante.

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