Prima gli insulti per mail e poi i «post» o le immagini imbarazzanti: oggi l’ex si diffama in pubblico. Così si moltiplicano le storie che naufragano malamente sui social. E la giustizia si deve confrontare con questa «evoluzione» dei reati.
«Mi diceva di tutto. Mi scriveva fiumi di email, centinaia di messaggi e di vocali. I suoi insulti erano ovunque. Dopo mesi infernali, sono sbarcati anche sui social network. Ha cominciato a insultarmi sul mio profilo, poi quando l’ho bloccato ha iniziato a usare il suo, taggando anche i nostri amici. Alla fine è arrivato a firmare commenti negativi sotto i post dell’azienda dove lavoravo come ingegnere. Non c’era modo di farlo ragionare, e così alla fine ho deciso di denunciarlo».
A parlare è Luisa T., 37 anni, modenese. La sua è una storia tutt’altro che rara, e racconta l’evoluzione contemporanea dei rapporti «tossici». Se un tempo ci si limitava a parlare male del proprio ex partner con amici e parenti, spingendosi al massimo al bar di quartiere o alla piazza di paese, adesso le nuove tecnologie creano decine di opportunità che spesso si traducono in esercizi attivi di abusi. Atteggiamenti provocatori e offensivi che, come nel caso di Luisa T., diventano dei veri incubi: «Era ovunque. Pensavo molto più a lui da quando ci eravamo lasciati, che prima. Ero terrorizzata non dall’incontrarlo per strada, come mi era capitato con i miei precedenti ragazzi, ma da quello che avrebbe potuto scrivere su di me. Qualsiasi momento era quello buono per raccontare, come ha fatto, dettagli intimi che sarebbero dovuti restare tali. O postare delle foto tutt’altro che piacevoli…». Parafrasando il titolo di un noto film con Jim Carrey e Kate Winslet, vincitore anche di un Oscar per la migliore sceneggiatura, ormai non dovremmo più parlare di Se mi lasci ti cancello, ma di «Se mi lasci ti querelo». Con l’avvento dei social network, ogni relazione interrotta, specie se si è conclusa bruscamente, esce dalle stanze private e intime delle camere da letto ed esplode su Facebook e Instagram con post offensivi e, sempre più spesso, con foto intime. La conseguenza finale è sovente la medesima: alla fine i due ex si rivedono in tribunale, acuendo i sentimenti spiacevoli e il desiderio di vendetta. Aggiungendo poi (come se ce ne fosse bisogno) procedimenti e procedimenti nei già saturi tribunali.
È quanto capitato a Sonia, a pochi chilometri da Cassino. Anni fa conosce un uomo, un professionista di tutto rispetto. Tra i due scocca la fatidica scintilla, che si tramuta in un rapporto passionale, talmente profondo che decidono di immortalare i momenti più salienti fotografandoli con la presunta convinzione che sarebbero rimasti solo loro. Dopo pochi mesi, però, il fuoco si spegne e Sonia lascia il compagno. «Lui non se ne capacitava, non si rassegnava, ha tentato in tutti i modi di riconquistarmi, però io dopo qualche mese ho cominciato a frequentare un’altra persona». Per il distinto professionista, come racconta l’avvocato che ha seguito il caso Francesco La Cava, è un colpo di grazia. Quello che ne segue, invece, è degno di un film (dell’orrore): «Poco prima delle nozze la donna riceve come regalo dall’ex compagno un report fotografico che racchiude tutti i momenti intimi vissuti. Una sorta di album privato che viene pubblicato e diffuso sui social. Le conseguenze? Immagine della ragazza totalmente rovinata e matrimonio rinviato». E, manco a dirlo, processo penale al termine del quale il maldestro fotografo viene condannato, per diffamazione a mezzo stampa, alla pena di nove mesi di reclusione. «Senza dimenticare» continua La Cava «50 mila euro di provvisionale sul danno provocato all’ex compagna, cui il giudice penale lo ha condannato e che ha dovuto pagare per beneficiare della sospensione condizionale della pena». Una sentenza che solo una manciata di anni fa – con l’uso del web non ancora così pervasivo, e i social network del tutto agli albori – sarebbe stata impensabile. Ma che oggi, benché non esistano dati precisi a sancire questa drammatica evoluzione, è sempre più frequente. Come laconicamente spiega il legale: «Può sembrare strano, ma ormai parecchie coppie di giovani e meno giovani chiudono così il loro rapporto favoriti dalla facilità di diffusione delle notizie».
Si tratta di tutt’altro che un gioco. «Piuttosto è un esercizio dell’immaturità sentimentale contemporanea», riflette la psichiatra Donatella Marazziti, autrice del saggio La natura dell’amore (Fioriti editore). «Nella nostra società, l’amore è il sentimento principe, la pietra angolare delle relazioni affettive, il fulcro della nostra esistenza. Quando viene a mancare, o si rivela tradito, l’equilibrio fra ragione e sentimento si inclina irreparabilmente». Le conseguenze sono spesso imprevedibili e disastrose. E la giurisprudenza si adegua.
Anche perché, se non sono foto, bastano commenti offensivi in chat di WhatsApp o in gruppi social (pubblici o privati che siano) per rischiare di cadere non solo nelle semplici offese, ma in querele di parte che inevitabilmente poi si tramutano in processi e, quasi sempre, in condanne. Esattamente come capitato vicino Monza a Claudia (un nome di fantasia). Conosce su Facebook un coetaneo, lui inizia un corteggiamento serrato, fra i due sboccia una relazione sentimentale. Ancora una volta gli ingredienti sono gli stessi: passione, trasporto, sesso. Peccato che la storia finisca presto. Claudia insiste, lui però non ha alcuna intenzione di continuare. E si lascia andare a un commento sui social offensivo nei confronti della donna, portatrice peraltro di una patologia (una forma di strabismo definita «esotropia congenita»). A leggere i testi dei messaggi c’è da rabbrividire. «Senti brutta tr… strabica che nn sei altro…» scrive l’uomo «T consiglio di smetterla. Nn voglio fare il cattivo sputtanandoti nella tua sfera sociale dove le persone t stimano […] T consiglio di caricare le foto ove la frangia nn nasconde il litigio continuo dei tuoi occhi e nello stesso tempo il numero di un bravo psichiatra […]».
Risultato? Querela prima, e 20 mila euro di condanna poi. Altrettanto inquietante ed esemplificativa la storia della veneta Tiziana. «Il mio ex marito» racconta «non si dava pace che la nostra relazione fosse finita. Per mesi mi ha chiamato decine di volte al giorno, prima insultandomi e poi minacciandomi. Vivevo in uno stato di ansia e angoscia totale. Ero paralizzata. Temevo che la situazione potesse degenerare per sempre e che una mia qualsiasi risposta lo avrebbe incattivito ancora di più. Purtroppo, inevitabilmente, così è stato: quando ho visto che aveva cominciato a postare su dei gruppi del nostro paese le nostre chat private, ho capito che dovevo fare qualcosa. Allora ho reagito non come si aspettava lui, ovvero dandogli corda, ma denunciandolo». In questo caso, il procedimento è ancora in corso.
Esattamente come quello di Cecilia, che ha conosciuto Tiziana su un gruppo di autosupporto online, dove si era iscritta per metabolizzare le vessazioni subite per anni dal suo ex compagno. «Avrei preferito morire piuttosto che continuare a vivere nell’angoscia e nella paura di quello che mi avrebbe potuto fare» racconta la donna. «Non so dove ho trovato la forza di ribellarmi a quello che mi stava facendo. Ma io non volevo che quelle sevizie limitassero la mia vita. Non volevo finire come decine di donne che ogni anno scelgono di non reagire alle violenze». O decidono, come nel caso di Tiziana Cantone, di suicidarsi a causa di «revenge porn».
«Oggi» riflette ancora l’avvocato La Cava «i reati più frequenti che vengono commessi attraverso i social sono la diffamazione o gli atti persecutori, nel linguaggio comune stalking, perseguibili a querela di parte, ovvero reati di non rilevante importanza rispetto a quelli perseguibili d’ufficio». La giurisprudenza, dunque, sul punto è piuttosto chiara: potrebbe essere diffamatorio creare gruppi contra-personam o pubblicare foto private. E finanche rivelare sulla propria bacheca o su quella di altri relazioni extraconiugali.
Un esempio? Pochi anni fa una sentenza della Cassazione ha condannato a oltre 10 mila euro, dopo i primi gradi a Torino, due colleghi perché avevano rivelato sui social che un terzo dipendente dell’azienda aveva una storia con la segretaria. Tra moglie e marito non mettere il post.