Con sofisticate tecnologie digitali, specialisti del suono danno nuova vita a vinili storici, intervenendo sugli effetti delle singole parti ed evidenziando particolari che non erano stati valorizzati. Non vogliono snaturare il prodotto originale ma migliorarlo. E per questo sono diventati dei «must».
Revolver dei Beatles come nessuno lo ha mai ascoltato prima: l’appuntamento è per il 28 ottobre quando il capolavoro del 1966 dei Fab Four tornerà nei negozi in formato remix. Remixare un disco è un’operazione «magica» d’alta tecnologia che permette al tecnico del suono (in questo caso Giles Martin, figlio del leggendario produttore dei Beatles, Sir George Martin) di intervenire sugli strumenti e le voci utilizzati per incidere un album, cambiando i volumi e gli effetti sonori delle singole parti e mettendo in evidenza particolari che non erano stati valorizzati.
Il risultato finale diventa quindi un’esperienza d’ascolto completamente diversa rispetto all’originale. Che non altera le versioni classiche, ma le arricchisce di dettagli, che mette a disposizione degli ascoltatori e dei fan tutto l’intero lavoro svolto da una band in sala d’incisione. Ovviamente, per realizzare una simile magia, che per certi versi è anche un restauro certosino della qualità dei suoni, occorre poter separare in maniera netta i singoli strumenti e le singole parti vocali. Un’operazione estremamente difficile, e fino a qualche anno fa impossibile, soprattutto se riferita a dischi incisi con tecnologia totalmente analogica prima del 1967.
Per questo, nel caso di Revolver, si è rivelato decisivo l’intervento del fenomenale team audio di Peter Jackson, non a caso regista del documentario The Beatles: Get Back. Per la pellicola, Jackson e i suoi riuscirono a isolare i dialoghi tra Paul McCartney e George Harrison che amavano parlare di musica e di altro mentre schitarravano a più non posso con gli amplificatori al massimo del volume. La stessa rivoluzionaria tecnologia è stata messa a disposizione di Giles Martin per Revolver. Intervistato dal magazine Rolling Stone, Martin ha descritto il tutto con una metafora culinaria: «È come se mi avessero dato una torta fatta e finita e poi un’ora dopo me l’avessero ripresentata “smontata” con i singoli ingredienti: farina, uova, zucchero, canditi…».
Piacciono e vendono molto (in vinile ma anche in cd) le versioni restaurate di album leggendari. Non era scontato, perché quella del remix è un’arte che mette in discussione uno dei principi cardine dell’arte stessa, ovvero l’intangibilità del capolavoro. Rimasterizzare un disco significa soltanto rendere più brillante un suono datato, remixare significa invece far suonare quell’album in maniera diversa da come tutti l’hanno ascoltato per decenni. Il rischio di un intervento di troppo o troppo invasivo è altissimo, ma finora, grazie alla indiscutibile professionalità dei tecnici del suono coinvolti in queste operazioni, nessuno si è lamentato. Anzi.
L’accoglienza trionfale riservata al remix di Animals dei Pink Floyd (realizzato dall’ingegnere-produttore James Guthrie) è un’autorevole conferma del gradimento da parte del pubblico di questi interventi postumi. Nel caso di Animals, il risultato è clamoroso: il disco più cupo della band è come rinato e non ha torto chi sostiene che con questo nuovo mix sembra di avere i Pink Floyd che suonano nel salotto di casa. Merito della tecnologia che consente interventi impensabili anche solo cinque anni fa, e merito anche della passione travolgente di chi si mette dietro alla consolle per mesi e mesi, lavorando per decine di ore su ogni singolo dettaglio, come per esempio l’eco o il riverbero che accompagna una parte vocale.
Oggi, il «remixatore» più richiesto al mondo è Steven Wilson, 55 anni, inglese, artista rock con una brillante carriera solista ed ex membro di una band progressive chiamata The Porcupine Tree. Wilson remixa senza sosta, anche quando è in tour. Il suo tocco nel rimaneggiare i dischi cult è unico e distinguibile. Per questo tutti lo vogliono: negli ultimi mesi i Guns N’Roses gli hanno affidato il compito di far suonare come si deve la parte orchestrale della loro hit del 1992, November Rain, così come i Grateful Dead gli hanno consegnato le chiavi di American Beauty, il loro classic album degli anni Settanta. Tra i suoi clienti anche Yes, Jethro Tull, King Crimson, Tangerine Dream, Tears For Fears, Black Sabbath e Roxy Music.
Un’altra figura interessante in questo ricco comparto di music business è quella del produttore che dopo una manciata di decenni remixa se stesso utilizzando le nuove tecniche informatiche.
Lo ha fatto con ottimi risultati Tony Visconti con il mitico album di David Bowie, The Man Who Sold The World. Per l’occasione il disco è uscito con una copertina diversa da quella originale e persino con un titolo differente, ovvero Metrobolist, quello che aveva ipotizzato il suo autore con un esplicito riferimento al film di Fritz Lang, Metropolis. Un omaggio a Bowie, ma anche a Kurt Cobain – leader dei Nirvana – che del brano che dà il titolo all’album originale fece una cover bellissima. Talmente intensa ed emozionante che il Duca bianco s’inchinò al rifacimento del collega americano e la definì «mistica». n
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